L’editoriale/ La ferita della memoria divisiva

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Il Giorno della memoria si svolge in un contesto storico che si è particolarmente indurito tra guerre e neo-nazionalismi e nel pieno di un’ondata di anti-semitismo (Primo Levi diceva: «Ciò che è accaduto continua ad accadere»). In un quadro così, la celebrazione del Giorno della memoria e dell’ottantesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz dovrebbe essere l’occasione per uno sforzo in controtendenza, cioè unitario; il momento, come prima e più di prima, per una ricerca condivisa del senso tragico della storia; la fase più adatta per un cessate il fuoco delle polemiche e delle divisioni e per un tentativo di segnale nuovo sul futuro. 
Invece, accade l’opposto. La ricorrenza, al contrario che in certe fasi del passato, non viene stavolta vissuta come incontro. E questa trasfigurazione del Giorno della memoria – l’unica data del calendario civile riconosciuta e vissuta contemporaneamente in tutti i Paesi europei – è un fenomeno profondamente negativo. Basti pensare che la Russia ora dice che il nazismo sta tornando e a farlo tornare è l’Occidente tramite l’Ucraina. 
Più in piccolo, qui da noi, come si vede in certe sgrammaticature dell’Anpi, il 27 gennaio diventa anzitutto un capitolo della lotta contro Israele. E lo scontro intorno alla Piramide Cestia, dove sono comparse scritte rivolte all’associazione dei partigiani e alle Ong («Sareste stati per Hitler») con tanto di repliche indignate ma forse occorreva non accendere fin dall’inizio i fuochi dell’ideologia, è la messa in scena appunto di questa conflittualità propagandistica che il Giorno della memoria non merita. Ma a cui viene sottoposto anche sui social. 
Se il centrodestra coglie l’occasione di questa giornata di ricordo per ribadire la vicinanza allo Stato ebraico, a sinistra si tende ad essere meno celebrativi rispetto a qualche anno fa temendo che un giusto tributo storico a un popolo che è stato sterminato possa essere assurdamente letto – da chi è ancora più di sinistra – come un sostegno all’attuale politica di Netanyahu. Ecco, il sovrapporre con leggerezza e strumentalismo, e anche con indifferenza alle pene dell’umanità, il presente al passato è ciò che non si dovrebbe proprio fare. Perché rischia di rovinare – ma per fortuna a mettere tutto nella giusta luce ci sono le celebrazioni istituzionali – il significato profondo di una ricorrenza. Che neanche può essere ridotta a diatriba del tipo: va chiamata «genocidio» la carneficina anti-semita del 7 ottobre o è «genocidio» la reazione israeliana a Gaza? E addirittura papa Francesco è finito in questa querelle che ha un’importanza molto relativa. 
L’ansia del presentismo e del dividersi a tutti i costi fa sfuggire il nocciolo della questione di questo 27 gennaio. Ed è quello molto ben descritto, nei primi anni ‘90, da uno degli intellettuali più raffinati e profondi del panorama europeo, il franco-bulgaro Tzvetan Todorov, il quale ci ha messo in guardia: «Ancora oggi la memoria della seconda guerra mondiale è viva nel nostro Continente, sostenuta da innumerevoli commemorazioni, pubblicazioni, trasmissioni radiofoniche e televisive; ma la ripetizione rituale del “non bisogna dimenticare” non ha alcuna visibile incidenza sul processo di purificazione etnica in corso e sulle torture e le esecuzioni di massa che si verificano all’interno dell’Europa». Todorov di riferiva ai massacri nell’ex Jugoslavia. Ma adesso, a dispetto del “non dimenticare”, le carneficine ci sono in altre parti a noi vicinissime e la conoscenza storica, non solo come ricordo ma anche come riflessione, servirebbe a scongiurali ma all’uopo andrebbe maneggiata bene e non usata per altri fini. 
E c’è un’altra ansia, stavolta molto giustificata, che grava su questo molto particolare Giorno della memoria. Riguarda il fatto che ancora più di prima ci si rende conto, perché gli anni passano, che va assottigliandosi il numero di coloro che da vittime e da testimoni diretti hanno vissuto l’orrore della Soluzione Finale. Quindi dovrebbe esserci lo sforzo, finché si può, per ascoltare meglio queste persone in quanto il loro racconto, per dirla poeticamente, riscalda le gelide stanze della storia. E dovrebbe riscaldare molto di più le stanze in cui oggi la storia viene studiata – parliamo delle aule degli atenei delle élites radicali anglosassoni o francesi ma anche delle nostre università – e in cui non si può non notare che ci sono giovani portatori di un nuovo anti-semitismo nascosto dietro l’anti-sionismo, che è cosa diversa della critica legittima e per certi versi motivata alla politica del governo di Tel Aviv. 
E così, il buon uso del Giorno della memoria dovrebbe essere quello che aiuta a ricordare l’esistenza di un nemico comune a tutta l’umanità, cioè il razzismo, l’intolleranza e la guerra, e a superare ogni tipo di steccato politico e geopolitico e ogni genere di banalizzazione e di faziosità.

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