Lo stato regionale dopo la sent. n. 192 del 2024
di Andrea Morrone
Sommario: 1. Una “sentenza quadro”, con luci e ombre. – 2. Una decisione sull’art. 116.3 Cost. che riscrive il titolo V? – 3. I molti volti della sussidiarietà: clausola di supremazia, ascensore, canone di adeguatezza. – 4. I limiti generali della differenziazione regionale (impliciti all’art. 116.3 Cost.). – 5. Le “materie sospette” difficilmente devolvibili, soggette a uno “strict scrutiny”: un nuovo “comma 22” e il problema degli elenchi. – 6. Oltre 100 pagine, 52 pronunce, un solo dispositivo. Quale “nucleo normativo” resta, dopo la “colegislazione” della Corte, anche ai fini dei referendum abrogativi. – 7. Le singole pronunce di accoglimento. L’oggetto della differenziazione per “specifiche funzioni” e non per “intere materie”, tra illusione e realtà. – 8. Il “test di adeguatezza” e la “giustificazione sufficiente” contenuto della “motivazione” necessaria per la legge di autonomia differenziata. – 9. Apologia della democrazia fondata sulla dialettica di unità-pluralismo e della centralità parlamentare: una legge di approvazione sostanziale e non “prendere o lasciare”. – 10. I limiti intrinseci della forma di governo parlamentare a garantire una differenziazione costituzionalmente adeguata e lo spostamento di potere dal Parlamento alla Corte costituzionale. – 11. Il nodo della determinazione dei Lep. Illegittimità del meccanismo di determinazione (non della necessità dei Lep): una delega legislativa in bianco e l’incoerenza intrinseca dei Dpcm. – 12. Senza il meccanismo di determinazione dei Lep, una legge inapplicabile? – 13. Come stabilire i Lep, tra legge e dpcm. La strada dei livelli di assistenza sanitaria. Lep e funzioni caso per caso. – 14. Concetto dei Lep. Differenza tra contenuto minimo di un diritto (right security) e Lep (right safety). Il nodo della condizionalità finanziaria dei Lep e il diritto alle risorse corrispondenti. – 15. Dopo la sentenza 192, due modelli di finanziamento del regionalismo: a) la “forma” costituzionale. – 16. (Segue): b) la “variazione sul tema” contenuta nella legge generale come manipolata dalla Corte costituzionale: finanziamento dinamico dei Lep, invarianza della compartecipazione. – 17. Una sintesi sulla “gestione efficiente” della differenziazione: una soluzione impossibile?
1. Una “sentenza quadro”, con luci e ombre
Per la terza volta nella storia della sua giurisprudenza, la Corte costituzionale ha adottato una decisione di portata generale sulla struttura della Repubblica “una e indivisibile, che riconosce e promuove le autonomie locali” (art. 5 Cost.). E già questo aspetto è rilevante.
Come nella sent. n. 177 del 1998 sull’interesse nazionale e, poi, nella sent. n. 303 del 2003 sul principio di sussidiarietà, anche nella sent. n. 192 del 2024 sul regionalismo differenziato i giudici di palazzo della Consulta hanno dato prova della volontà di tratteggiare le linee portanti del regionalismo. Il risultato è, però, un affresco con molte luci e molte ombre. È forse una conseguenza, inevitabile, della scelta di anteporre al giudizio sulle molteplici questioni di costituzionalità sulla legge n. 86 del 2024 – quasi solo l’occasio della pronuncia – una valutazione globale sullo stato dell’arte presente e futuro del nostro sistema pluralistico.
Molto si potrebbe dire comparando le tre decisioni generali oltre a questa osservazione preliminare sull’ambiguità di fondo di pronunce che vorrebbero chiudere una volta per tutte ma che, invece, finiscono per aprire molte porte. La sensazione – abbandonate le posizioni delle opposte tifoserie schierate in campo – è la distanza che si registra tra la “forma” della Costituzione scritta e la sua interpretazione vivente.
Nei precedenti ricordati, l’interesse nazionale e la sussidiarietà sono stati configurati come i criteri per ordinare i principi di unità e di differenziazione a vantaggio della centralizzazione, ma non hanno impedito affatto la regionalizzazione. L’unità della Repubblica (insieme a tutti i corollari che ne riempiono il contenuto ampiamente richiamati nella 192) nell’interpretazione recente della Consulta, invece, diventa la leva per rendere estremamente improbabile (se non impossibile) la forma più estrema della differenziazione territoriale prefigurata nell’art. 116.3 Cost. La legge n. 86/2024 ha portato allo scoperto tutte le ambiguità di quella norma: ed è l’aspetto positivo dell’intera vicenda sull’uso politico della differenziazione. Dopo la sent. n. 192, però, sembra di assistere all’ennesimo requiem del nuovo Titolo V.
Se mettiamo in fila l’esperienza degli ultimi vent’anni, quelli di una revisione costituzionale che aveva l’obiettivo di modernizzare il Paese attraverso un più avanzato processo di decentramento e di regionalizzazione, non è difficile scorgere le tracce del fallimento di un’impresa collettiva. In fondo, lo svuotamento sostanziale della legge n. 86 del 2024 non è che l’ultimo e, tutto sommato, marginale tassello di un mosaico depauperato (da parte di tutti gli attori: Parlamento, Governo, autonomie territoriali, Corte costituzionale) di tutte le tessere essenziali: la promessa trasformazione della “seconda camera” in un “senato delle regioni” (travolta dalle riforme costituzionali mancate, da quelle realizzate finora e dalla prassi parlamentare sul “monocameralismo di fatto”); una legge sul trasferimento delle funzioni mai nata dopo la revisione (basti ricordare il “ridicolo” tentativo della cd. “legge La Loggia” svuotata da Corte cost. sent. n. 280 del 2004); una decisione effettiva sull’allocazione delle risorse finanziarie di uno Stato pluralista complesso (entrate, spese, perequazione) sostituita da interventi settoriali che hanno perpetuato una finanza decentrata per trasferimenti vincolati (stante il “congelamento”, mediante i rinvii reiterati – l’ultimo dei quali contenuto nel Pnrr fino al 2027 – della legge sul cd. federalismo fiscale e di tutti i suoi decreti delegati); e, last but not least, la concreta difficilissima possibilità di accedere al cd. regionalismo differenziato, proprio dopo l’importante sent. n. 192.
2. Una decisione sull’art. 116.3 Cost. che riscrive il titolo V
La strategia argomentativa della pronuncia è quella di ribaltare il punto di vista. Essa si concentra non sulla legge n. 86 del 2024 (o non soltanto su di essa), impugnata da quattro regioni contrastate da altre tre, ma soprattutto sull’art. 116.3 Cost. Questo è il “vero” oggetto della decisione.
Ciò non dipende dal fatto che, almeno in uno dei ricorsi regionali, si contestava la legittimità della novella introduttiva del regionalismo differenziato rispetto ai principi supremi dell’ordinamento (possibile ex sent. n. 1146 del 1988), in primis quello di unità e indivisibilità della Repubblica (trattandosi, in fondo, di una censura messa in subordine rispetto a tutte le altre). Si potrebbe aggiungere che, del resto, nei ricorsi sembrava difficile separare la critica della legge da quella alla disposizione costituzionale. Il rischio paventato, in fondo, poteva essere che la legge n. 86 andasse considerata, non soltanto negli ambienti della maggioranza parlamentare che l’aveva voluta e approvata, la fedele riproduzione dei contenuti dell’art. 116.3 Cost. e, quindi, inattaccabile in sé e per sé, senza contestare (direttamente o indirettamente) la legittimità della “norma di riconoscimento”. Per superare questa prospettiva e, soprattutto, per allontanare il “calice amaro” di una inedita, per tanti versi difficile, e oltremodo improbabile, dichiarazione di incostituzionalità della previsione costituzionale in questione, la Corte ha fatto una scelta decisiva. Separare la norma costituzionale dalla legge di attuazione, interpretando in modo conforme ai principi supremi la prima, e manipolando in più punti e in maniera diversificata la seconda.
Lo si dice chiaramente fin dall’incipit: il 116.3 non è “un monade isolata” ma va collocato nel “quadro complessivo della forma di stato italiana, con cui va armonizzata”. Che questo fosse il da farsi non pare dubitabile. Solo un marziano – absit iniura verbis per coloro che avevano indossato questo figurino prima della presente decisione – poteva dubitare che l’art. 116.3 Cost. e la sua attuazione positiva avrebbero potuto svolgersi in contraddizione con il sistema costituzionale.
Il problema della sentenza è un altro. Siamo certi che il risultato ottenuto sia quello di una interpretazione sistematica? O, piuttosto, la Corte costituzionale ha riscritto i contenuti della forma di stato definiti dal nuovo Titolo V? Unità e pluralismo nella Costituzione scritta conducono alle conclusioni cui sono portati dalla decisione della Corte costituzionale?
3. I molti volti della sussidiarietà: clausola di supremazia, ascensore, canone di adeguatezza
Il principio di sussidiarietà è riletto rispetto alla sent. n. 303/2003. Dal fare le veci di una clausola di supremazia costituzionale (un surrogato aggiornato dell’interesse nazionale delineato, nella sent. n. 177 del 1988, con i corollari della leale collaborazione e della ragionevolezza), torna ad essere una sorta di “ascensore”, un canone “dotato di intrinseca flessibilità” nella distribuzione delle competenze tra centro e periferie, più in linea con il tenore e la ratio dell’art. 118 Cost., non quindi della “sentenza Mezzanotte” appena richiamata.
Nondimeno, la Corte – anche di fronte al silenzio dell’art. 116.3 Cost. che, invece, menziona solo l’art 119 Cost. – lo utilizza pure in un’altra prospettiva: quale principio per regolare il regionalismo differenziato, attraverso la sua metamorfosi in un canone generale “adeguatezza” (declinata partitamente nei criteri di efficienza, equità, responsabilità), quasi confondendo questo concetto con quello di sussidiarietà (nonostante la distinta menzione di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione nell’art. 118 Cost.).
Non basta. Addirittura, si arriva a sostenere che l’art. 116.3 Cost. è “espressione della flessibilità propria del principio di sussidiarietà”, dato che “contiene una clausola generale di flessibilità che consente a ciascuna regione di chiedere di derogare all’ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione”.
Singolari affermazioni. L’art. 116.3 Cost. rappresenta, sì, il mezzo per derogare il regionalismo valido in via ordinaria (che la Corte definisce come “ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione”), ma il risultato delle leggi rinforzate è quello di creare una situazione privilegiata, differenziata appunto, rispetto alle altre regioni (dette “terze”), che è rigida e definitiva (rebus sic stantibus: finché le intese e le leggi correlative non sono modificate), e che, se i testi hanno un senso, resta di norma impermeabile a qualsiasi applicazione della sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost. L’ascensore, per come dice il testo della Costituzione, vale rispetto al regionalismo ordinario, non certo nei confronti delle “regioni differenziate”. La flessibilità è propria del modello costituzionale, non certo di quello in deroga per effetto della differenziazione negoziata. O, viceversa, si vuole ammettere che, nonostante le leggi di differenziazione, la clausola di sussidiarietà possa essere attivata (e da chi? dallo Stato?, secondo il senso della sent. n. 303 del 2003?) per flessibilizzarne i relativi contenuti, portando (unilateralmente) verso l’alto alcune delle funzioni decentrate, oppure riportando a valle altre funzioni erariali, senza una nuova intesa con la regione interessata?
Nuovi usi della sussidiarietà, insomma, inediti anche rispetto alla stessa giurisprudenza costituzionale pregressa.
4. I limiti generali della differenziazione regionale (impliciti all’art. 116.3 Cost.)
La riscrittura del 116.3 Cost., per renderlo compatibile con la Costituzione – perché di questo si discute nella sentenza in esame – va apprezzata anche con riferimento ad altri dati.
La sintesi può essere letta in una delle tante formule “definitive”: “In conclusione, l’art. 116, terzo comma, Cost., richiede che il trasferimento riguardi specifiche funzioni, di natura legislativa e/o amministrativa, definite in relazione all’oggetto e/o alle finalità, e sia basato su una ragionevole giustificazione, espressione di un’idonea istruttoria, alla stregua del principio di sussidiarietà” (p.n. 4.3). Tornerò sul punto delle “specifiche funzioni” e della giustificazione del trasferimento, in uno con la questione del finanziamento, compreso il nodo dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep).
La sentenza snocciola una serie di limiti, derivanti dall’art. 116.3 Cost., ma dei quali, per la verità, non c’è traccia nel testo scritto. Proprio accogliendo il suggerimento dei ricorrenti, per cui il trasferimento deve essere necessariamente differenziato per “specifiche funzioni” e non per materie, la Corte precisa che, quandanche le funzioni siamo spostate alla competenza legislativa piena della regione richiedente le “forme e condizioni particolari di autonomia”, restano fermi una serie di vincoli: non solo i limiti generali dell’art. 117.1 Cost. – inutile precisazione, spiegabile solo se fosse rivolta a occasionali e frettolosi lettori della Costituzione scritta – ma anche le competenze trasversali come la tutela della concorrenza, i Lep, l’ordinamento civile, fermo il potere sostitutivo di cui all’art. 120.2 Cost., aggiungendo che la devoluzione non può sorpassare le “colonne d’Ercole” individuate “dall’art. 116, terzo comma, Cost., come precedentemente interpretato, a garanzia della permanenza dei caratteri indefettibili della nostra forma di stato”.
L’effettività di questi limiti è assicurata dal controllo di costituzionalità, che la Corte si riserva, sulle singole leggi di autonomia differenziata “alla stregua dei principi sin qui enunciati”. Tale sindacato è attivabile o in via incidentale, o in via d’azione su ricorso delle “regioni terze”, dato che la violazione dei limiti così individuati dell’art. 116.3 Cost. da parte delle singole leggi rinforzate si traduce in un “regime privilegiato per una determinata regione”, che si trasforma nella violazione “di per sé” della “par condicio tra le regioni”, ovvero della “loro posizione di eguaglianza davanti alla Costituzione” ex artt. 5 e 114.
Il costruttivismo interpretativo conduce ad un ampliamento dei poteri del Custode. Questi i profili palesi; ve ne sono anche altri che restano sottintesi. Ne dirò avanti.
5. Le “materie sospette” difficilmente devolvibili, soggette a uno “strict scrutiny”: un nuovo “comma 22” e il problema degli elenchi
Non paga, la decisione 192 stabilisce in un esteso paragrafo (p.n. 4.4) che, inoltre, vi sono “materie, cui pure si riferisce l’art. 116, terzo comma, Cost., alle quali afferiscono funzioni il cui trasferimento è in linea di massima difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà”.
Scelta impegnativa, sia perché nel testo della Costituzione non c’è traccia di una simile “riserva indiana”, sia perché contraddittoria rispetto a quanto detto dalla Corte sulla sussidiarietà come “ascensore” per l’allocazione ottimale di tutte le funzioni (e non solo di alcune).
Ne deriva un lungo e argomentato elenco, che integra l’art. 117 di un nuovo “comma 22”, relativo a materie che “motivi di ordine sia giuridico che tecnico o economico (…) ne precludono il trasferimento”, per le quali “l’onere di giustificare la devoluzione alla luce del principio di sussidiarietà diventa, perciò, particolarmente gravoso e complesso”. Così tanto, si allega, da implicare, nientedimeno che uno “scrutinio stretto di legittimità costituzionale” (sia detto per incidens: negli altri casi lo scrutinio non sarebbe “stretto”?).
Il “comma 22” prevede così (lo dico in sintesi): il commercio con l’estero, il commercio con l’Unione Europea (Ue), la tutela dell’ambiente; la produzione, il trasporto, la distribuzione nazionale dell’energia; i porti e gli aeroporti civili e le grandi reti di trasporto e di navigazione; le professioni; l’ordinamento della comunicazione; le norme generali sull’istruzione.
Sono materie molte delle quali fortemente incise dalle “trasformazioni intervenute sul piano geopolitico e geoeconomico”, e, più concretamente, dal diritto dell’Ue e, quindi, come quella ambientale per tutte, su cui Bruxelles ha esercitato poteri normativi “in modo assai ampio”.
Quando si fanno elenchi, il rischio che si corre è quello degli assenti. Anche in questo caso, a voler seguire il ragionamento della Consulta, ci si potrebbe chiedere perché solo queste materie e non altre, come ad esempio la ricerca scientifica e tecnologica, la tutela della salute (la voce di bilancio più rilevante della spesa nazionale e regionale), la tutela e sicurezza del lavoro, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, la protezione civile ecc. In fondo, per qualsiasi delle materie individuate nell’art. 117.3 Cost. è possibile indicare funzioni espressione di “esigenze di carattere unitario” e quindi infrazionabili, interessate dal diritto europeo.
Continuando sulla strada seguita dalla Corte, certo, si sarebbe potuto arrivare alla conclusione che il regionalismo differenziato non avrebbe avuto alcun senso. Pare, nondimeno, difficile allontanare l’impressione che i limiti individuati pretoriamente abbiano di mira un risultato assai prossimo a quello appena paventato.
6. Oltre 100 pagine, 52 pronunce, un solo dispositivo. Quale “nucleo normativo” resta, dopo la “colegislazione” della Corte, anche ai fini dei referendum abrogativi
Una volta inquadrato il contenuto dell’art. 116.3 nella costellazione dei vincoli costituzionali, la sent. n. 192 si dedica alla risoluzione delle censure relative alla legge n. 86/2024. Anche in questo ambito, tuttavia, l’esame delle disposizioni legislative è stato preceduto da considerazioni di carattere generale, che hanno plasmato i contorni interpretativi di tutti i concetti fondamentali della Costituzione.
La Corte se ne occupa classificando i capitoli del “libro” sul regionalismo italiano a seconda che si tratti delle fonti di produzione e dei loro rapporti, della determinazione dei Lep, del sistema di finanziamento, della leale collaborazione.
I numeri aiutano a capire la singolarità della 192: nelle oltre 100 pagine di motivazione, la decisione ha restituito un dispositivo che contiene 52 pronunce, di cui 14 dichiarazioni d’incostituzionalità (6 accoglimenti secchi, 5 sostitutive, 1 additiva, 2 illegittimità consequenziali), 12 inammissibilità (motivate non solo in punto di rito, ma contenenti precisazioni esegetiche), 26 dichiarazioni di infondatezza (di cui almeno 3 interpretative di rigetto, relative ai punti qualificanti della disciplina).
Scendendo di piano, la demolizione della legge n. 86/2024 non ha tanto l’aspetto di una caducazione, quanto quello di una sua manipolazione interpretativa, frutto di una sorta di “co-legislazione” esercitata dal giudice costituzionale. La legge generale (la cui illegittimità “totale” è stata esclusa da tutti i profili censurati) è stata riscritta, nel senso che anche gli accoglimenti si sono risolti nella positivizzazione di contenuti normativi diversi da quelli originari.
Sulla base di questa considerazione, del resto, lo stesso Ufficio centrale per il referendum della Cassazione ha ritenuto – in applicazione analogica dell’art. 39 della legge n. 352 del 1970 – di trasferire il quesito abrogativo totale sul testo della legge risultante a seguito della sent. n. 192 (così come, parallelamente, ha dichiarato la cessazione delle operazioni per il quesito parziale, concernente il trasferimento di materie definite dalla legge “no-Lep” essendo stato raggiunto il risultato che anche per quegli stessi ambiti materiali la predeterminazione dei Lep consegue all’esistenza di funzioni concernenti diritti). È, pertanto, ragionevole ritenere, con la Cassazione, che il corpo elettorale poteva essere chiamato a pronunciarsi sulla perdurante vigenza di una legge generale sull’attuazione dell’art. 116.3 Cost., sia pure nella forma di “un nucleo normativo che non solo resta oggi formalmente vigente, ma vi resta convalidato nella interpretazione adeguatrice che ne è stata data”.
Questo non significa che il quesito sia pure ammissibile. La questione è in certo senso nuova: la Corte è chiamata a stabilire l’ammissibilità di un quesito totale su una legge che esse stessa, riscrivendola in alcuni punti, ha contribuito a rendere immune da vizi di costituzionalità.
La decisione di inammissibilità che è stata presa dalla Consulta, però, si spiega proprio in ragione della premessa che facevo. Avendo la sent. n. 192 deciso sulla compatibilità costituzionale del 116.3 Cost., l’oggetto del referendum è stato mutato, perché più che sulla legge n. 86/2024, il corpo elettorale sarebbe stato chiamato a pronunciarsi sulla norma costituzionale. Come in un “miracolo costituzionale” (quelli di cui parlava il decisionista Carl Schmitt) la legge di attuazione da facoltativa (la Corte ha escluso apertamente che sia una “legge necessaria”) è diventata “a contenuto costituzionalmente vincolato”. Non per nascita, ma per gli sviluppi successivi, prodotti dalla sent. n. 192.
7. Le singole pronunce di accoglimento. L’oggetto della differenziazione per “specifiche funzioni” e non per “intere materie”, tra illusione e realtà
L’effetto normativo della sent. n. 192 si è appuntato su alcuni nodi della legge: l’estensione alle regioni speciali (l’unica disposizione “palesemente” incostituzionale per evidente e chiarissimo contrasto con la lettera dell’art. 116 Cost.); l’oggetto della differenziazione (con la sostituzione delle “materie” con “specifiche funzioni”); la determinazione dei Lep (con l’annullamento della delega legislativa “in bianco”, dell’aggiornamento dei Lep mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e della procedura transitoria di determinazione dei Lep sempre mediante Dpcm); l’allineamento “fabbisogni-compartecipazioni” (sulla base del criterio della “spesa storica” anziché di quello dei “costi standard” o della “spesa efficiente”); il concorso delle regioni differenziate agli obiettivi di finanza pubblica (previsto come facoltativo anziché obbligatorio). Nessuna censura è stata accolta in materia di violazione del principio di leale collaborazione.
Se la prima decisione appariva scontata (tanto da sembra persino superfluo fare riferimento all’art. 10, legge cost. n. 3 del 2001, al fine di rintracciare una qualche ragione che potesse superare la “specialità” regionale, garantita mediante statuti approvati con legge costituzionale), le altre – quelle che hanno dato luogo ad altrettante decisioni di accoglimento – potevano dirsi controverse, e per nulla sicure (tutte quelle rigettate nel merito erano per me scontate).
Cominciamo dall’oggetto della differenziazione. Dopo aver escluso l’incostituzionalità dell’intera legge, la Corte ha annullato la disciplina positiva che disponeva trasferimenti indiscriminati, potenzialmente interessanti “tutte le funzioni di tutte le materie”.
Sulla decisione ha pesato l’esperienza delle prime intese, che avevano proprio questo contenuto (almeno quelle di Veneto e di Lombardia). Non era questo l’oggetto della causa petendi, però; anche se è difficile escludere che quel dato non fosse un “convitato di pietra” – anche perché la stessa legge rivitalizzava gli accordi già stipulati.
La Corte accoglie e sostituisce le “materie” con le “specifiche funzioni”, perché questo dato deriverebbe dal testo dell’art. 116.3 Cost.
Strana considerazione, se è vero che proprio quell’articolo parla di “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie (…)”. Formula che, evidentemente, ha generato un “equivoco” interpretativo (nella prassi e nel dibattito pubblico). Qui emerge lo iato creato dalla Corte tra il parametro e la legge: l’illegittimità di quest’ultima su tale punto discende dalla prima, ma per come essa è stata adeguata a Costituzione nella parte generale della sentenza, non certo per il suo tenore letterale.
Dal punto di vista positivo e applicativo, i trasferimenti riguardano sempre “funzioni”, non materie. In questi termini ne parlano gli artt. 116, 117, 118 e 119 Cost.; così si esprimono gli statuti speciali – il termine di comparazione più diretto con il regionalismo differenziato, stante la stessa fraseologia usata nell’art. 116 Cost. (cfr. ad es. art. 4, St. Friuli-Venezia Giulia: la regione “ha potestà legislativa nelle seguenti materie”; artt. 4 e 8, St. Trentino-Alto Adige). Lo stesso art. 1.2 della Legge n. 86 (oggetto di intervento manipolativo-sostitutivo) contempla “l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (…) relative a materie o ambiti di materie (…)”.
Era, quindi, necessaria la precisazione della Corte? L’unica novità vera riguarda l’aggettivo “specifiche” funzioni, in effetti mancante nella formula legale (ma anche nel parametro!). Nondimeno: la precisazione impedisce che, trasferendo anche per “specifiche funzioni”, si arrivi comunque al risultato che si è voluto sterilizzare? Ossia che la devoluzione possa avere ad oggetto tutte le funzioni relative ad una o più materie indicate nel testo dell’art. 116.3 Cost. (al netto, ovviamente, dei limiti costituzionali individuati dalla Corte)?
Il merito della Corte è di avere colpito questa parte della disciplina per sgombrare il campo da ogni equivoco, imponendo trasferimenti solo per “specifiche funzioni”, che quindi vanno individuate di volta in volta, e – questo l’aspetto più rilevante che supera ogni dubbio – affinché con riferimento a ciascuna specifica funzione devolvibile vi sia una altrettanto specifica “giustificazione” della devoluzione.
Da questo punto di vista, ciò che viene aggiunto al testo della Costituzione è la necessità di una motivazione in termini di adeguatezza della differenziazione. Un trasferimento per “specifiche funzioni” purché “adeguato”.
8. Il “test di adeguatezza” e la “giustificazione sufficiente” contenuto della “motivazione” necessaria per la legge di autonomia differenziata
Giustificare per differenziare è il primo nodo da affrontare. Si tratta di un percorso ad ostacoli, a voler seguire l’indicazione della Corte, fatto dell’applicazione dei criteri di adeguatezza, del rispetto dei consistenti limiti costituzionali, dell’esperimento di una “idonea istruttoria”.
Sui primi la sent. n. 192 si dilunga assai. Il test di adeguatezza – che vale tanto per le parti dell’intesa, quanto ai fini del successivo eventuale giudizio di costituzionalità sulla legge rinforzata – sono individuati in valutazioni circa l’efficacia e l’efficienza ex art. 97 Cost., l’equità-eguaglianza ex art. 3 Cost., la responsabilità politica (nel quadro del “pieno rispetto” degli obblighi internazionali ed europei). Si chiarisce che la giustificazione dell’adeguatezza va fatta con riferimento alle caratteristiche della funzione e del contesto della devoluzione, previa “istruttoria approfondita” suffragata da “metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico”. Infine, si indicano i vincoli da rispettare che, come anticipato, vanno da quelli generali del 117.1 Cost., alle materie trasversali come concorrenza, Lep, ordinamento civile, alle cd. “materie sospette” il cui trasferimento sarebbe “difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà”.
Molti i dubbi che un simile discorso suscita. Il procedimento per la differenziazione esce ancora più complicato rispetto alla legge n. 86/2024.
Consideriamo l’idonea istruttoria, dalla quale dovrebbe emergere l’applicazione dei criteri di adeguatezza: chi dovrebbe svolgerla, e quando andrebbe fatta? La sent. n. 192 al p.n. 4.3. riferisce l’istruttoria all’iniziativa regionale che, quindi, dovrebbe esserne supportata. È evidente, tuttavia, che da sola la regione non sarebbe in grado di risolvere tutti i passaggi del test, anche perché l’adeguatezza non riguarda (non potrebbe) solo il contesto della richiedente (come sembrerebbe ritenere Lorenza Violini), ma implica una visione di insieme che coinvolga direttamente anche lo Stato, attraverso il governo (non a caso nel p.n. 22.1 si evoca una “gestione più efficiente allo Stato”).
Non potrebbe essere altrimenti. Anche perché è lo Stato che deve trasferire le funzioni e le relative risorse; è lo Stato che deve determinare e garantire i Lep, e le relative risorse; e, quindi, è lo Stato che deve definire, insieme all’autonomia particolare della regione richiedente, anche il quadro delle grandezze organizzative che riguardano il resto del Paese (che deve poter andare avanti, nonostante la regione differenziata).
Non si dice, ma è come se la sent. n. 192 avesse imposto una “motivazione” sufficiente alla legge rinforzata (riaprendo il noto tema se la “legge” sia suscettibile di allegare una simile giustificazione).
9. Apologia della democrazia fondata sulla dialettica di unità-pluralismo e sulla centralità parlamentare: una legge di approvazione sostanziale delle intese e non un “prendere o lasciare”
Un ragionamento simile porta acqua al mulino del Parlamento, valorizzato nella sua funzione di rappresentanza degli interessi nazionali, senza colpire affatto il tenore della legge n. 86/2024, soltanto interpretando l’art. 116.3 Cost. nel quadro del sistema costituzionale. Pure stavolta non si rinuncia a sovrabbondanti argomentazioni retoriche. A volte contraddittorie.
Nella parte generale di questo “manuale” di diritto costituzionale e regionale, la Consulta sente il bisogno di partire ab imis, dalla definizione della democrazia italiana, fondata sulla dialettica di pluralismo e unità, precisando che essa “può essere mantenuta solamente se le molteplici formazioni politiche e sociali e le singole persone, in cui si articola il ‘popolo come molteplicità’, convergono su un nucleo di valori condivisi che fanno dell’Italia una comunità politica con una sua identità collettiva. In essa confluiscono la storia e l’appartenenza a una comune civiltà, che si rispecchiano nei principi fondamentali della Costituzione. A tutto ciò si riferisce la stessa Costituzione quando richiama il concetto di ‘Nazione’ (artt. 9, 67 e 98 Cost.)”.
In sostanza si postulano una serie di identificazioni: tra l’identità collettiva, la storia e la civiltà, la nazione, che costituirebbero un tutto. Il popolo (poco prima inteso come “molteplicità”) e la Nazione diventano, ora, unità non frammentabili, che postulano la “unicità della rappresentanza politica nazionale”.
Da qui opposte valutazioni: da un lato le modifiche costituzionali del 2001 “non permettono di individuare ‘una innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali’ (sentenza n. 365 del 2007)”; da un altro lato, la “ricchezza di interessi e di idee di una società altamente pluralistica come quella italiana non può trovare espressione in un’unica sede istituzionale, ma richiede una molteplicità di canali e di sedi…”. Ciò nondimeno, si aggiunge che “spetta, però, solo al Parlamento il compito di comporre la complessità del pluralismo istituzionale”. Anche se la tutela delle esigenze unitarie fa parte “dell’indirizzo politico della maggioranza e del Governo, nel rispetto del quadro costituzionale”, il Parlamento è il luogo del “confronto trasparente con le forze di opposizione”, che “permette di alimentare il dibattito nella sfera pubblica, soprattutto quando si discutono questioni che riguardano la vita di tutti i cittadini”. Sicché Il Parlamento “deve, inoltre, tutelare le esigenze unitarie tendenzialmente stabili, che trascendono la dialettica maggioranza-opposizione”, come dimostrano la riserva di competenza esclusiva “in alcune materie in cui siano curate esigenze unitarie”, e i compiti unificanti nei confronti del pluralismo istituzionale mediante i principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente, le materie trasversali, la perequazione finanziaria.
Una simile scolastica, ma utile, apologia del Parlamento non poteva che condurre all’altrettanto ovvia deduzione – ovviamente dimenticata dalla maggior parte degli interpreti (comprese le regioni impegnate sulla differenziazione) – che la legge di approvazione delle intese non può essere un passaggio formale, ma un atto deliberativo sostanziale, perché l’art. 116.3 Cost. affida alle “alle Camere un ruolo centrale nella fase finale del procedimento” che si traduce in “un potere legislativo pieno” (p.n. 11.3), che può rimettere in moto il negoziato presupposto.
Del resto, solo a coloro che dimenticano la “nobile arte del distinguere” – tanto cara a Marco Cammelli – poteva sfuggire che le regole degli artt. 8 e 116.3 Cost., per dirla con la n. 192, “pur essendo formulate in modo simile, si occupano di fattispecie eterogenee” (p.n. 5.5). L’avevo scritto in tempi non sospetti. Inascoltato.
10. I limiti intrinseci della forma di governo parlamentare a garantire una differenziazione costituzionalmente adeguata e lo spostamento di potere dal Parlamento alla Corte costituzionale
Una considerazione a margine su quest’ultimo punto. Il discorso è ineccepibile in un manuale. Nella realtà delle nostre istituzioni di governo parlamentare è eccessivamente semplice. Ci consegna una visione elementare, in cui il governo è il contraltare del Parlamento, quando, invece, il governo è emanazione permanente di una maggioranza parlamentare, cui si contrappone, questa volta sì, una opposizione (l’una e l’altra spesso divise in diversi gruppi o partiti, ma questa è un’altra storia). E allora: la valutazione della giustificazione di una richiesta di regionalismo differenziato in termini di adeguatezza, l’apprezzamento sostanziale del Parlamento in sede di approvazione della legge rinforzata, come si conciliano con la realtà costituzionale del governo parlamentare? Un governo con una solida maggioranza può facilmente piegare la volontà parlamentare sull’uno e sull’altro fronte.
Da questo punto di vista, il disegno costituzionale, e la legge n. 86/2024, si presentano non adeguati alla rilevanza delle questioni connesse alla differenziazione negoziata, vieppiù di fronte alle corrette sollecitazioni della Consulta.
Sicché, le esigenze unitarie di cui il Parlamento dovrebbe essere il custode, sono destinate ad essere assorbite nell’indirizzo politico della maggioranza, ossia proprio il contrario di quanto vorrebbe farci credere la sent. n. 192. Un risultato comunque è stato ottenuto, ma non è la garanzia della “centralità parlamentare”, o di una dialettica maggioranza-opposizione equilibrata, de iure condito prive, entrambe, di adeguati sostegni.
Il controllo intorno all’adeguatezza del regionalismo differenziato da “politico” diventa “tecnico-giuridico”, nella misura in cui viene trasferito di fatto dalle aule parlamentari nella camera di consiglio della Corte costituzionale. Quel che emerge, anche dalla sent. n. 192, è la devoluzione al giudizio di costituzionalità della custodia del regionalismo differenziato. Non saranno le istituzioni politiche a svolgere quel test di adeguatezza di cui abbiamo detto; sarà la Corte costituzionale a farlo, sollecitata o in via incidentale o in via d’azione, caso per caso.
È una pellicola già vista. Come ricordano i regionalisti, il giudizio sull’interesse nazionale, che la Costituzione del 1948 – non la Consulta – aveva affidato al Parlamento era stato trasformato – dal giudice costituzionale – da un controllo successivo di merito politico a un “presupposto di legittimità” costituzionale del regionalismo. Siamo oggi nella stessa situazione, quindi, anche se nel mezzo c’è stata una revisione costituzionale, che aveva l’obiettivo di ridisegnare il volto della Repubblica delle autonomie a partire dalle istituzioni di governo politico, non per mezzo dell’iniziativa dei giudici.
Condivido, perciò, quanto dice Lorenza Violini, che le leggi di approvazione delle intese non saranno sorrette da nessun test preventivo di adeguatezza, e si limiteranno al mero trasferimento di funzioni e risorse, ieri come domani. Aggiungo, come detto, che tutto il resto, sulla adeguatezza della differenziazione, è stato riservato, da sé stessa, alla Corte costituzionale.
11. Il nodo della determinazione dei Lep. Illegittimità del meccanismo di determinazione (non della “necessità previa” dei Lep): una delega legislativa in bianco e l’incoerenza intrinseca dei Dpcm
Sul regionalismo differenziato grava la spada di Damocle dei Lep, la cui previa determinazione (in senso ampio, di “specificazione” degli standard e del relativo “finanziamento”, come si dirà) è la conditio sine qua non dei trasferimenti di “specifiche funzioni”. Questa previsione legislativa viene confermata e ulteriormente rilanciata dalla sent. n. 192. L’affresco che ne risulta, però, resta tutto da colorare.
Com’è noto, la legge n. 86/2024 affidava, a regime, la determinazione dei Lep ad una delega legislativa (art. 3), costruita per relationem, rinviando alla disciplina transitoria dettata dalla legge di bilancio per il 2023 (art. 1, commi 701-801-bis, l.n. 197/2022).
L’una e l’altra sono state dichiarate incostituzionali. La delega legislativa è caduta per l’insufficienza dei “criteri direttivi” richiamati a rispettare i canoni dell’art. 76 Cost., risolvendosi in un conferimento di poteri “in bianco” (sicché sono venuti meno, oltre al comma 1, anche i commi 2, 4, 5, 6, 10 dell’art. 3). Ciò avrebbe ulteriormente svilito la funzione di controllo del Parlamento, ampiamente valorizzata nei punti precedenti.
L’accoglimento è in linea con la premessa generale, che la differenziazione interessi “specifiche funzioni” e sia “giustificata adeguatamente”. Una delega per “numerose e variegate materie”, sostiene la Corte, mal si concilia col fatto che ogni materia “ha le sue peculiarità” e, quindi, che ognuna richiede “distinte valutazioni e delicati bilanciamenti”. In questa circostanza il legislatore non ha seguito neppure i precedenti, dato che, in passato, stabilire i Lep è stato fatto “in modo distinto per ciascuna materia” (così per i livelli di assistenza in materia sanitaria, per i Lep nei servizi sociali, nell’istruzione e nella formazione professionale).
Parallelamente, la Corte ha annullato sia la previsione dell’aggiornamento dei Lep mediante un Dpcm, per incoerenza intrinseca alla stessa norma, rispetto alla previsione di un atto legislativo primario per la loro determinazione (art. 3, c. 7); sia la determinazione dei Lep, nelle more dell’adozione dei decreti legislativi, sempre mediante Dpcm, per un’incongruenza sopravvenuta tra il regime transitorio e quello ordinario (art. 3, c. 9, con illegittimità conseguenziale sopravvenuta alla data di entrata in vigore della l.n. 86/2024 della disciplina contenuta nella richiamata legge di bilancio per il 2023).
12. Senza il meccanismo di determinazione dei Lep, una legge inapplicabile?
I dubbi che emergono in proposito sono diversi. Ci si può chiedere se, caduta questa disciplina, sia venuta meno la stessa possibilità di applicare la legge n. 86/2024 e, con essa, l’art. 116.3 Cost. Un argomento simile è stato speso da chi ha ritenuto inammissibile il referendum totale (dimenticando, però, che l’applicatività in concreto non rileva nel giudizio, perché, ai fini dell’abrogazione, conta la “vigenza” e, addirittura, come nel precedente sul referendum abrogativo della “scala mobile”, anche la non vigenza, se da essa possono derivare conseguenze giuridiche).
L’intervento demolitorio è stato chirurgico: è stata annullata con effetto ex tunc la norma sulla delega legislativa (che, eventualmente, andrà riscritta seguendo le indicazioni della Corte), mentre il procedimento di adozione dei Dpcm è venuto meno “a decorrere da”, restando valido fino alla data di entrata in vigore della legge n. 86/2024. Il fatto che medio tempore, sulla base di quest’ultima disciplina, non siano stati adottati nuovi Dpcm sui Lep rende, di fatto, inapplicabile la regola della loro previa determinazione rispetto ai trasferimenti di funzioni.
Ciò impedisce l’iniziativa regionale ai sensi dell’art. 116.3 Cost.?
Come specificato anche dalla Corte, la legge generale non era necessaria, ma frutto di una libera e legittima decisione del legislatore. Anche per tale ragione, l’art. 116.3 Cost. va considerato autoapplicativo, non richiede l’interpositio legislatoris. C’è oggi, però, la legge di attuazione, manipolata in più punti dalla Corte, della quale resta un “nucleo normativo” vigente, ma non sul punto specifico della concreta possibilità di previa determinazione dei Lep. Dal ragionamento complessivo, pare desumersi che, mentre il trasferimento delle funzioni debba avvenire per specifiche funzioni, la determinazione dei Lep vada assicurata – analogamente a quanto accaduto nei casi citati (come la sanità) – “in modo distinto per ciascuna materia” (si noti la sfumatura concettuale, che distingue il trasferimento per “specifiche funzioni” e la determinazione dei Lep per “ciascuna materia”).
Ora, poiché la Corte ha affermato come regola generale che non sia sostenibile costituzionalmente la distinzione legale tra “materie Lep” e “materie no-Lep” (art. 3.3, interpretato, per questa parte, in modo conforme a Costituzione), per cui ogni qualvolta una funzione differenziata riguardi un diritto (civile o sociale) ciò impone allo Stato di stabilire i relativi livelli essenziali delle prestazioni prima della devoluzione, se ne deduce che i negoziati possono essere avviati e, direi anche, che l’intesa può essere stipulata (anche perché come fa lo Stato a sapere se deve fissare i Lep?), fermo restando che l’approvazione per legge non può esserci finché lo Stato non ha determinato i Lep (con le relative risorse) nelle materie su cui insistono le specifiche funzioni richieste dalla regione. Ne consegue, quindi, che ad impedire l’attuazione dell’art. 116.3 Cost. non è tanto il venir meno della delega e della disciplina transitoria (il meccanismo), quanto soprattutto il criterio normativo che ha stabilito l’ordine temporale tra determinazione dei Lep e trasferimento delle funzioni.
13. Come stabilire i Lep, tra legge e dpcm. La strada dei livelli di assistenza sanitaria. Lep e funzioni caso per caso
Sul meccanismo di determinazione dei Lep vale la pena di insistere. Com’è noto la critica maggiore concerne la scelta di stabilire i Lep mediante Dpcm in violazione della riserva legislativa rinvenuta nell’art. 117.2, lett. m). Dopo la sent. 192, quella tesi ha avuto un riconoscimento? Non sarei sicuro a rispondere affermativamente.
Come detto, la Corte ha fatto cadere la delega legislativa per insufficienza dei criteri direttivi e ha censurato la concorrenza di fonti eterogenee (primarie e secondarie) nella stessa materia, ma non ha detto né che l’atto legislativo è necessario, né che un Dpcm è uno strumento inadeguato. Proprio il riferimento alla consolidata esperienza dei Lea in materia sanitaria, previsti dalla legge n. 502 del 1992 e specificati nei relativi patti intergovernativi (l’ultimo risale al 2008) e in appositi Dpcm, fa ritenere duplicabile questo schema misto di intervento anche in altre circostanze.
L’art. 117.2 lett. m) è una norma attributiva di una competenza legislativa, nel quadro del riparto dei poteri di normazione primaria tra lo Stato e le regioni: non è una riserva di legge e, comunque, non si risolve in una riserva assoluta di legge. È con atto legislativo statale che vanno determinati i Lep, ma ciò non impedisce che entro una chiara e definita cornice legale, la specificazione delle singole prestazioni possa essere fatta con una fonte secondaria, come il Dpcm. Come di norma avviene in materia di tutela della salute.
Nel nostro caso, dopo la n. 192, la maggioranza parlamentare potrebbe riscrivere il procedimento di delegazione legislativa, risolvendo i vizi emersi nella presente decisione. Non penso sia necessario (e neppure opportuno) ormai, proprio perché la sent. n. 192, nell’imporre i Lep “in modo distinto per ciascuna materia”, consiglia di procedere in concreto e caso per caso, in relazione alle funzioni oggetto di un’iniziativa regionale, piuttosto che per mezzo di una delega generale, pure articolata per specifiche materie. Insomma, quel che emerge dalla decisione n. 192 è la necessità che la determinazione dei Lep preceda la devoluzione, che le rispettive attività sono strettamente collegate, a partire dal giudizio di adeguatezza che devono sorreggere entrambe, ma pure perché, tanto l’una che l’altra, sono soggette ai criteri di specificazione e di determinatezza.
14. Concetto dei Lep. Differenza tra contenuto minimo di un diritto (right security) e Lep (right safey). Il nodo della condizionalità finanziaria dei Lep e il diritto alle risorse corrispondenti
È sulla qualificazione dei Lep che la sentenza offre spunti al contempo interessanti e problematici. Si riducono i margini di incertezza che avevano, come una nebbia, offuscato il dibattito e la stessa codificazione sulla differenziazione.
I Lep sono correttamente inquadrati come il risultato di una decisione politica che la Costituzione affida al legislatore statale e si risolvono in standard uniformi relativi alle prestazioni necessarie in materia di diritti da garantire in tutto il Paese “tenendo conto delle risorse disponibili”. Essi “implicano una delicata scelta politica, perché si tratta – fondamentalmente – di bilanciare uguaglianza dei privati e autonomia regionale, diritti e esigenze finanziarie e anche i diversi diritti fra loro” (p.n. 9.2; p.n. 14).
Se nella pregressa giurisprudenza era difficile separare i Lep dal “contenuto minimo” di un diritto – i due concetti, anzi, potevano dirsi confusi – nella 192 si compie uno sforzo per precisarne i confini (anche se non fino in fondo).
Dai lavori preparatori della legge cost. n. 3/2001 la Corte trae che la formula “livelli essenziali delle prestazioni” è stata preferita a quella dei “livelli minimi di garanzia” proprio perché si voleva così “assicurare uniformità dei diritti fondamentali” in tutto il Paese; assicurare, cioè, “se possibile uno standard di tutela superiore al nucleo minimo del diritto, in collegamento (per quel che riguarda i diritti sociali) con l’art. 3, secondo comma, Cost., che affida alla Repubblica il compito – di più ampio respiro rispetto all’erogazione delle prestazioni minime – di ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Se ben intendo, si è così introdotta una distinzione tra due tipi di garanzia dei diritti fondamentali. Posso tradurla utilizzando i due concetti inglesi di “sicurezza” (security e safety): la tutela minima ovvero sufficiente di un diritto (right security); la tutela essenziale o adeguata di un diritto (right safety). La prima è consustanziale alla nozione stessa di diritto, sicché mancando la tutela del contenuto minimo non c’è neppure un diritto. La seconda, che presuppone che la prima condizione sia stata soddisfatta, implica una garanzia del diritto adeguata in ragione della natura del diritto (civile o sociale, individuale o collettivo), e del contesto di riferimento (sociale, economico, politico).
Riletta, l’argomentazione, in questi termini, si spiegano meglio le conseguenze che la Corte ne trae.
La prima. Dalla distinzione concettuale deriva la risoluzione della problematica circa la sostenibilità finanziaria. Posto che la garanzia dei diritti implica (sempre) costi economico-finanziari a carico della collettività, il contenuto minimo proprio perché diretto alla right security va necessariamente garantito e, quindi, non può essere condizionato da considerazioni di carattere finanziario (secondo la formula giurisprudenziale, fortunata, ma che solo così può assumere un senso razionale, per cui “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”: sentt. nn. 275/2016, 152/2020, 309/1999). I Lep, viceversa, in quanto diretti alla right safety, a realizzare un’adeguata protezione di un diritto, sono discrezionali, frutto di decisioni politiche, condizionate dalle risorse economico-finanziarie disponibili.
La seconda conseguenza riguarda il rapporto tra i Lep e l’autonomia regionale. La Corte spiega che mentre il contenuto minimo costituisce “un limite derivante dalla Costituzione” che va garantito dallo stesso giudice costituzionale “anche nei confronti del legislatore statale, a prescindere da considerazioni di carattere finanziario”, i Lep “sono un vincolo posto dal legislatore statale, tenendo conto delle risorse disponibili, e rivolto essenzialmente al legislatore regionale e alla pubblica amministrazione; la loro determinazione origina, poi, il dovere dello stesso Stato di garantirne il finanziamento”. Come viene ribadito più avanti, dalla determinazione dei Lep, deriva per le regioni differenziate il “diritto” a ricevere le risorse sulla base del principio costituzionale di corrispondenza (art. 119.4 Cost.).
15. Dopo la sentenza 192, due modelli di finanziamento del regionalismo: a) la “forma” costituzionale “ottimale”
Da queste affermazioni, i dubbi. Se i Lep sono frutto di scelte non imposte dalla Costituzione, ma dipendenti dall’indirizzo politico di maggioranza in ragione delle risorse disponibili, non si comprende per quale ragione essi devono essere necessariamente predeterminati nel caso della differenziazione. O sono necessari o sono facoltativi.
Ragioni di opportunità, quindi, giustificano la scelta del legislatore (nel 2022 e nel 2024), e della stessa Corte costituzionale, di contemplarne la determinazione ex ante rispetto alla devoluzione di specifiche funzioni. Per la Corte “nel momento in cui il legislatore statale conferisce una maggiore autonomia a una determinata regione con riferimento a una specifica funzione, che implica prestazioni concernenti diritti civili o sociali” deve “previamente determinare uno standard uniforme di godimento del relativo diritto in tutto il territorio nazionale, in nome del principio di solidarietà (…). La determinazione dei Lep (e dei relativi costi standard) rappresenta in necessario contrappeso della differenziazione, una ‘rete di protezione’ che salvaguarda condizioni di vita omogenee sul territorio nazionale”.
La domanda lecita è: a che cosa serve la differenziazione, se quel che una regione chiede, con riferimento a funzioni Lep, deve essere garantito su tutto il territorio nazionale? E se i Lep vanno comunque garantiti, essendo una “spesa obbligatoria”, quale sarebbe l’interesse della regione richiedente in questo scenario? Solo quello di poter disporre di autonomia piena in ordine ad “altre funzioni”, diverse da quelle interessate dai Lep?
L’interpretazione della Corte va poi inquadrata nel sistema (cosa che non mi pare faccia fino in fondo la sent. n. 192)
Nel regime ordinario della Costituzione (l’ottimo secondo la qualificazione della sentenza) i Lep possono essere stabiliti dal legislatore statale ex ante o ex post e, qualora lo fossero, costituiscono un limite al potere di conformazione dei diritti riconosciuto alle regioni nelle materie di propria competenza. Secondo il combinato disposto degli artt. 117, 118 e 119 Cost. è lo Stato che “determina” i Lep che, se tagliano trasversalmente materie regionali, sono le regioni a dover garantire, sulla base delle risorse disponibili in base al proprio bilancio.
Ecco perché, nel modello disegnato dal nuovo titolo V, le regioni e le altre autonomie territoriali dovrebbero disporre di fonti di finanziamento adeguate a coprire le spese relative alle attribuzioni assegnate dalla Costituzione (tributi ed entrate proprie, compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio, fondo perequativo senza vincolo di destinazione) o dagli statuti speciali. La mancata attuazione del cd. federalismo fiscale ha lasciato sulla carta questo aspetto fondamentale. Ma non è venuto meno il criterio costituzionale per cui la responsabilità finanziaria dei Lep segue il criterio di riparto delle competenze (chi ha la competenza normativa ha anche il potere-dovere di spesa).
Nel caso del regionalismo differenziato, proprio il richiamo al “rispetto dei principi di cui all’articolo 119”, implica l’applicazione di un analogo criterio: delle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” rispondono finanziariamente le regioni richiedenti, cui spetta la copertura delle spese dei Lep stabiliti o prestabiliti dal legislatore statale. Anche l’art. 116.3 Cost., dunque, implica l’attuazione dell’art. 119 Cost., senza il quale non l’autonomia differenziata, ma l’autonomia territoriale è sostanzialmente un flatus vocis.
È da questo, non insignificante, particolare che nascono molte delle contraddizioni della legge n. 86/2024 e, a cascata, della sent. n. 192 (che ne segue la logica “distorta” rispetto al Titolo V). Le regioni che hanno chiesto la differenziazione hanno preteso la corresponsione di risorse adeguate al finanziamento delle nuove competenze, Lep compresi. Per puntellare questo percorso si è “inventato” il criterio della previa determinazione dei Lep rispetto al trasferimento delle funzioni, prima nella legge di bilancio per il 2023, poi nella legge 86/2024 e, quindi, confermato dalla stessa Corte costituzionale. Da questa premessa sono derivate le nuove regole sul finanziamento dei Lep (e delle altre funzioni devolute), che finiscono per disegnare un regime in deroga rispetto al modello costituzionale.
16. (Segue): b) le “variazioni sul tema” contenute nella legge generale come manipolata dalla Corte costituzionale: finanziamento dinamico dei Lep, invarianza della compartecipazione
Vediamo il regime del finanziamento che emerge dalla sent. n. 192. In ordine alle disposizioni finanziarie, la Corte costituzionale ha sostanzialmente salvato l’impianto complessivo, avvalorandolo. Com’è noto, la legge n. 86/2024 prevede per la sua attuazione l’invarianza della spesa pubblica; contempla la copertura delle spese relative ai Lep in ragione dell’aumento dei costi; individua genericamente nella “compartecipazione” (il 119 Cost. dice: “al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale”) la fonte di finanziamento della differenziazione, aggiungendo la possibilità di un suo allineamento al variare della spesa relativa; assicura genericamente alle “regioni terze” la garanzia della invarianza finanziaria e della perequazione (art. 4, 5, 9).
Due sole sono state le disposizioni annullate: la norma sull’allineamento tra i fabbisogni e le aliquote delle compartecipazioni, perché riferita al criterio non efficiente e deresponsabilizzante della “spesa storica” (art. 8.2: illegittimità “secca”; la Corte ricorda che non c’è traccia di un simile allineamento nell’art. 119 Cost., aggiungendo che, comunque, potranno essere previsti “aggiustamenti” delle compartecipazioni in via straordinaria, purché regolati dalle leggi rinforzate e all’interno di un trasparente processo che coinvolga anche il Parlamento); cade, poi, la norma sulla mera facoltatività anziché sulla “doverosità”, per le regioni differenziate, di “concorrere agli obiettivi della finanza pubblica” (art. 9.4: pronuncia sostitutiva).
Il presupposto di questo magro bottino (rispetto alla mole delle censure regionali, in larga parte rigettate) è la lettura adeguatrice dell’impianto finanziario della legge n. 86/2024.
La previsione sulla “invarianza finanziaria” dell’attuazione è ritenuta “coerente” con la ratio dell’art. 116.3 Cost. laddove impone una differenziazione “funzionale a migliorare gli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alla attese e ai bisogni dei cittadini, in attuazione del principio di sussidiarietà”. Ne consegue, per un verso, che il trasferimento delle funzioni deve avvenire senza aumentare la spesa o riducendola; per altro verso, che il criterio deve essere quello per cui i relativi costi vanno depurati delle “inefficienze” (“come può essere il costo e il fabbisogno standard, da applicare se la funzione attiene ad un Lep”).
Questa premessa generale sulla “gestione efficiente” porta la Corte ad escludere dalla legittimità prescritta dall’art. 116.3 Cost. il riferimento alla “spesa storica”; nonché ad imporre, alle intese, di tener conto del “quadro generale della finanza pubblica, degli andamenti del ciclo economico, del rispetto degli obblighi eurounitari, anche alla luce del nuovo sistema di governance”.
Su questa scena non potevano continuare ad insistere le due previsioni ricordate e per questo annullate. Posso aggiungere che, proprio sul mancato rispetto dei vincoli di bilancio, avevo previsto il vulnus più grave della legge n. 86/2024.
L’invarianza della spesa, tuttavia, non riguarda il finanziamento dei Lep. Qui la sentenza valorizza la disciplina positiva laddove distingue la spesa per i Lep e la spesa per le altre funzioni devolute: mentre le variazioni dei costi dei Lep (in aumento) implicano la relativa copertura e il trasferimento delle funzioni correlative potrà avvenire solo ex post, dopo aver trovate le risorse corrispondenti, le altre funzioni sono soggette all’invarianza della spesa.
Uno dei problemi che pone un simile argomento è come conciliare un trasferimento “a costo zero” e l’invarianza quale metro della compartecipazione ai fini della “neutralità” finanziaria, con la flessibilità dei costi previsti per i Lep.
Il quadro normativo risultante dalla sentenza disegna due sistemi di finanziamento paralleli? Uno (ma quale sarebbe?) per le funzioni Lep (permeabile all’aumento dei costi), l’altro per le altre funzioni (mediante compartecipazioni vincolate all’invarianza)? Se, invece, il sistema fosse unico, dipendente solo dalla compartecipazione, come si concilia l’invarianza della spesa con il fatto che essa comprende anche quella, suscettibile di essere aumentata, dei Lep? L’aumento della spesa essenziale per i Lep dovrà comportare ulteriori trasferimenti di risorse adeguate? Pare difficile escluderlo.
Sulla compartecipazione “a costo zero” molto si potrebbe dire: fra le tante critiche, quella più consistente deriva proprio dalla motivazione. Prodromico alla differenziazione è il giudizio di adeguatezza, che comprende anche la valutazione dei costi secondo il criterio della gestione efficiente. Ciò significa che la compartecipazione da destinare alla regione differenziata, per essere efficiente, equa, responsabile, dovrà essere determinata al netto della spesa statale per le funzioni trattenute, per quelle che vanno garantite a tutte le regioni terze, nonché al netto della spesa per i Lep da garantire sempre per tutto il resto del Paese. Che dire: un “vasto programma”.
Vorrei aggiungere, ma non posso approfondire, che il concetto di compartecipazione usato dalla sent. n. 192 non ha quasi nulla a che vedere con quello dell’art. 119.2 Cost.: qui si parla di uno strumento variabile perché calibrato sul diverso gettito espresso dal territorio regionale di riferimento, un mezzo di “sperequazione finanziaria” che, insieme alla potestà tributaria regionale (e alle entrate), giustifica, nella logica dell’art. 119 Cost., la perequazione ordinaria mediante il fondo senza destinazione “per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Nella sent. n. 192, invece, le compartecipazioni sono molto più simili alle “quote di tributi erariali” previste dal vecchio art. 119 Cost.: trasferimenti di risorse predeterminate e tendenzialmente fisse.
17. Una sintesi sul postulato di una “gestione efficiente” della differenziazione: una soluzione impossibile?
Provo a riassumere il quadro dopo la sent. n. 192. La differenziazione regionale potrebbe avvenire alle seguenti condizioni:
a) mediante trasferimenti per “specifiche funzioni”;
b) se toccano diritti (civili e sociali) il trasferimento è subordinato alla determinazione previa dei Lep (non ha più alcun rilievo la distinzione “materie Lep” e “materie no-Lep”);
c) la garanzia dei Lep costituisce un vincolo per le regioni differenziate;
d) lo Stato deve: 1) determinare i Lep; 2) individuare le risorse corrispondenti secondo il criterio del “costo standard”, adeguando la spesa alle variazioni (in aumento), il tutto nei limiti dell’equilibrio di bilancio e dei vincoli europei;
e) con riferimento ai Lep, così determinati, lo Stato deve trasferire le risorse alla regione differenziata al netto di quelle necessarie a garantirli per tutte le altre regioni che non accedono alla differenziazione (risorse trattenute, che vanno ad aggiungersi a quelle relative alle funzioni, diverse dai Lep, anch’esse mantenute dallo Stato nelle materie in cui insistono quelle altre funzioni trasferite alla regione differenziata);
f) lo strumento da cui attingere le risorse (per le funzioni differenziate, attinenti ai Lep o alle funzioni no-Lep) sono le compartecipazioni (la cui determinazione è tutta da costruire: non essendo stata definita né nella legge n. 86 né nella sent. n. 192);
g) le compartecipazioni devono garantire l’invarianza della spesa e la gestione efficiente;
h) le politiche di bilancio della regione differenziata, quindi, sul lato delle spese, conosceranno due regimi: una spesa necessaria per i Lep (le relative risorse, trasferite dallo Stato, saranno perciò a destinazione vincolata, com’è oggi per la spesa sanitaria), una spesa discrezionale per le altre funzioni (diverse dai Lep);
i) per le regioni terze, invece, la garanzia dei Lep, relativi alle funzioni devolute alla regione differenziata, continuerà ad essere assicurata dallo Stato.
Si tratta di un “sistema” veramente complesso. Allora, davvero l’ultima domanda è questa: prima ancora di chiedersi se tutto ciò, dopo la sent. n. 192, sia effettivamente realizzabile (politicamente e giuridicamente), quello qui rappresentato, frutto di una funzione colegislativa della Corte costituzionale, rappresenta esso stesso un “modello” (ammesso che si possa usare questo termine) per una “gestione efficiente” della nostra Repubblica?
Non avevamo bisogno di quest’ultima, sia pure importante, decisione della Corte costituzionale per prendere coscienza del fatto che, allo scopo di realizzare il nuovo titolo V, mancano alcuni presupposti fondamentali, che non possono certo dirsi inverati, se si continua a pensare – come si è fatto dal 2001 ad oggi – che, per costruire una “casa ben ordinata” (la Repubblica delle autonomie), si deve cominciare dal tetto (procedere ad una differenziazione, caso per caso, senza alcun quadro generale, positivizzato ed effettivo, di riferimento funzionale e finanziario), anziché dalle fondamenta (trasferire funzioni e risorse in via ordinaria a tutte le regioni e agli enti locali).
Denuncia la “tendenza della Corte a superare la lettera del Titolo V” confermata in questa sentenza, bollata di “una certa artificiosità dell’operazione interpretativa” C. Pinelli, Perché la disciplina dell’autonomia differenziata non va intesa come “una monade isolata” (Osservazione a Corte cost. n. 192 del 2024), in www.diariodidirittopubblico.it, 23 dicembre 2024.
Ho trattato funditus del tema dell’allocazione delle risorse come presupposto dell’autonomia nel mio studio Il sistema finanziario e tributario della Repubblica. I principi costituzionali, Bologna, Bononia University Press, 2021 (open access: https://buponline.com/prodotto/il-sistema-finanziario-e-tributario-della-repubblica/). Sull’argomento ritorna G. Rivosecchi, Regioni, finanza, livelli essenziali e principio democratico, www.lecostituzionaliste.it, ottobre 2024.
Cfr. A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, in “Federalismo fiscale”, 2007, 139 ss.
Riprendendo una tesi di S. Ceccanti (da ultimo: Sulla legge Calderoli agisca il Parlamento, in “QN – Nazione-Il Resto del Carlino-Giorno”, 20 gennaio 2025) anche A. Poggi, Il referendum sul regionalismo differenziato: i principi, l’attuazione, le Corti e la sovranità popolare, www.federalismi.it, 1 gennaio 2025, ha sostenuto l’inammissibilità per mutamento dei principi e inapplicabilità della legge oggetto del referendum totale. Per l’ammissibilità, invece, L. Castelli, Divagazioni sparse intorno all’ammissibilità del referendum sulla legge Calderoli, www.diariodidirittopubblico.it, 7 gennaio 2025.
Si è detto tra l’altro che se di difetto di chiarezza si deve discutere “qui non sarebbe dovuto alla mano dei promotori bensì a quello della stessa Corte”: A. Ruggeri, Dopo la pronuncia della Cassazione, il referendum “totale” sulla legge 86 del 2024 cambia pelle, convertendosi in…parziale, www.dirittiregionali.it, 16 dicembre 2024.
L. Violini, Alcune considerazioni sulla sentenza nr. 192/2024 della Corte costituzionali, in www.lecostituzionaliste.it.
M. Cammelli, Istituzioni deboli e domande forti, ora in Id., Amministrazioni pubbliche e nuovi mondi, 2019, Bologna, 267 e ss.
A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, cit.
Sul punto rinvio ai miei studi: A. Morrone, La Repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946-2022), Bologna, Il Mulino, 2022.
Non convince la tesi di C. Buzzacchi, Pluralismo, differenze, sussidiarietà ed eguaglianza: dalla sentenza n. 192 del 2024 il modello per il sistema regionale “differenziato”, in www.astridrassegna, n. 18/2024, secondo cui la sent. n. 192 avrebbe preservato “in maniera completa” la competenza del Parlamento sui Lep.
Una prece: smettiamo di parlare di diritto “eurounitario”, di obblighi “eurounitari”. Il concetto è sbagliato, sia perché non c’è ancora una “unità” in Unione europea, sia perché l’aggettivo qualificativo giuridicamente corretto è “europeo/a”: Unione europea, diritto europeo, obblighi europei…!
A. Morrone, Differenziare le regioni senza un disegno di Repubblica, in Nuove Autonomie, 2024, 219 ss.
Per una analoga critica su questo punto debole della decisione C. Buzzacchi, op. cit.
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