Lottiamo ancora contro l’autonomia! I sei anni nei comitati non vanno buttati via

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Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 


Innanzitutto un pensiero – doverosamente sentimentale – al 1.291.488 di cittadine/i che hanno firmato per celebrare il referendum abrogativo della legge 86/24, la legge Calderoli sull’autonomia differenziata. Un pensiero a loro, perché ci hanno cercato – nelle feste estive, nelle piazze dei mercati, nei concerti, nei parchi e nelle spiagge – con la cordialità, l’entusiasmo, la speranza di chi ripone fiducia in una grande iniziativa popolare: “Vi abbiamo cercato ovunque”… “ho già firmato online, posso firmare un’altra volta?”… “Ecco, ho portato anche mia madre che è anziana, ci teneva a venire”… “Ce la facciamo a raggiungere le 500mila firme?”. Un pensiero poi, altrettanto doveroso e sentimentale, alle centinaia di donne e uomini che hanno impegnato l’estate più calda di sempre in quelle piazze, in quelle feste e in quelle spiagge per raccogliere le firme, copiando documenti, raccogliendo le firme, volantinando, parlando con le persone. Spiegando le ragioni di una lotta che è partita da lontano.

Siamo nel 2001 quando l’improvvida riforma del Titolo V – “un monumento di insipienza giuridica e politica” come ebbe a definirlo il compianto costituzionalista Gianni Ferrara – mise d’accordo gran parte dell’allora arco parlamentare (da Forza Italia ai DS) decretando, tra le altre cose, la possibilità per le regioni a statuto ordinario di chiedere (ed ottenere in modo relativamente semplice e senza passaggi parlamentari) la potestà legislativa esclusiva su 23 materie. La secessione dei ricchi, come l’ha chiamata Gianfranco Viesti. Perché quella possibilità avrebbe consentito – in virtù peraltro del trattenimento quasi totale del gettito fiscale in regione – di rendere più ricche le regioni già ricche e più povere quelle povere, istituzionalizzando le diseguaglianze. Nel 2018 il dettato della Costituzione così riformata comincia a determinare reazioni concrete: il governo Gentiloni sigla le pre-intese con il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna per dar corso a quanto previsto dalla Costituzione stessa.

Da quel momento noi dei Comitati Per il Ritiro di ogni Autonomia Differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti scendiamo in campo, con pochissime altre forze democratiche: studiamo, riflettiamo, impariamo sulla base dei testi di alcuni dei più illustri costituzionalisti italiani (Azzariti, De Minico, De Fiores, Algostino, Ronchetti, Pallante, Villone, Della Morte e altri/e) ed economisti (Viesti, Liberati, Spirito), che ci hanno aiutato soprattutto a penetrare una materia difficile, talvolta ostile, interpretabile da diversi punti di vista. Senza quella conoscenza profonda, sedimentata e metabolizzata, non avremmo potuto girare l’Italia per 6 anni e mezzo, autofinanziandoci e toccando tutte le regioni italiane, dando vita a più di 350 iniziative pubbliche. Arrivare al referendum – grazie all’iniziativa della Cgil e alla discesa in campo della Uil e di tutte le forze politiche dell’opposizione tranne il partito di Calenda – sarebbe stato il coronamento di uno sforzo collettivo e monotematico che, come comitati, abbiamo portato avanti con tenacia, conoscenza, radicalismo, capacità inclusiva.

Le motivazioni per cui la lotta contro l’autonomia differenziata – governo dopo governo – è stata il nostro chiodo fisso, stanno scritte nel nostro nome: lungo, ma profondamente indicativo dei principi cui ci ispiriamo. E nella realtà di diseguaglianza, di intenzionale segregazione che l’attuale assetto politico ed economico impone alle classi più deboli, al potere d’acquisto dei salari, all’universalismo dei diritti. Le motivazioni della terribile delusione che il comunicato della Corte Costituzionale del 20 gennaio ci ha provocato (dichiarando l’inammissibilità del quesito referendario, e dunque impedendo la celebrazione del referendum) è in questa storia, nella pervicacia con cui l’abbiamo costruita, nelle relazioni che le nostre ragioni sono state capaci di creare. Vi si fa riferimento al fatto che ‘l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari’ e che ‘il referendum verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta sull’autonomia differenziata’.

La decisione della Corte ci ha profondamente e amaramente stupito, avendo la Corte stessa – con la sentenza 192/2024 – dichiarato illegittime 14 disposizioni normative della legge 86/24, lasciandone sopravvivere ben 52, oggetto di specifica contestazione da parte delle Regioni che – dopo la pubblicazione del testo della legge 86/24 – avevano fatto ricorso.

Eravamo tranquilli/e dopo che, con Ordinanza del 12 dicembre 2024, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittima la riformulazione del quesito referendario, trasferendolo alla parte residua della legge, tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale. Implicitamente la Corte di Cassazione ha detto quindi che il principio ispiratore della “legge Calderoli” rimaneva in essere; per questo – dopo peraltro aver organizzato con tanti/e costituzionaliste/i ben 6 convegni in 6 grandi città sul tema dell’ammissibilità e aver trovato conforto nelle loro analisi, abbiamo atteso fiduciosamente che la Corte Costituzionale dichiarasse l’ammissibilità del quesito di abrogazione totale in quanto chiaro e univoco.

Con la decisione assunta è stato invece sottratto ai cittadini e alle cittadine il fondamentale diritto di pronunciarsi su una legge (artt. 1 e 75 Cost.) di vitale importanza per l’assetto istituzionale e democratico, affermato con forza dalla raccolta – in soli due mesi di un’estate caldissima – di quasi 1.300.000 firme. Il comunicato della Corte costituzionale adombra poi il rischio che il referendum fosse in realtà sull’articolo 116 della Costituzione; ma ciò non risulta dallo spirito e dalla lettera del quesito referendario così come riformulato, che specifica infatti che il referendum sarebbe stato solo ed esclusivamente sulla legge 86/2024, come modificata dalla Corte costituzionale.

La Corte costituzionale ha detto che i/le cittadini/e non possono essere chiamati/e a giudicare la riscrittura della legge Calderoli da Essa operata. Insomma, la Consulta si è elevata esclusivamente a legislatore supremo e inappellabile, rinunciando alla propria funzione di garanzia e contraddicendo il principio della democrazia costituzionale, che non prevede alcun atto di sovranità assoluta. Come è possibile – ci chiediamo – affermare che non ci sarebbe stato un oggetto chiaro, essendo il quesito abrogativo del testo sopravvissuto ai rilievi della Corte? Dove sarebbe stata lesa la libertà di scelta dell’elettore?

Per concludere tre elementi. Sulla base delle precedenti riflessioni, si può credere che il depotenziamento che l’istituto referendario (art. 75 della Costituzione) subisce dalla sentenza della Corte Costituzionale sia un fatto neutro o irrilevante? Esso cade in un’epoca di assenza di forza e di radicamento dei partiti politici e di scarsissima rappresentatività, producendo un effetto estremamente negativo nell’eventuale rilancio, in questo contesto, della partecipazione e della sovranità popolare. Con questa sentenza, poi, la Corte ha colpito quello che – tra i 6 referendum su cui era chiamata a decidere (cittadinanza agli stranieri e 4 referendum sul lavoro, presentati dalla CGIL) sull’unico quesito che aveva creato – per la prima volta dopo tantissimi anni – un idem sentire diffuso in una porzione estremamente rilevante della società. E’ evidente che la celebrazione di quel referendum avrebbe creato grandi fibrillazioni a un governo (peraltro non coeso sul tema dell’autonomia differenziata, che pur sempre – però – rappresenta – insieme alla separazione delle carriere dei magistrati e al premierato) le 3 gambe di un patto scellerato che rischia di minare alle fondamenta la democrazia costituzionale. Ora il governo è più forte e le altre due riforme potranno procedere con maggiore speditezza e minore contrasto.

Infine: da sempre sosteniamo che i LEP (livelli essenziali di prestazione) sono una foglia di fico, che mal copre il progetto di abbassare ulteriormente il livello dei servizi pubblici che dovrebbero garantire la fruizione da parte di tutti/e dei diritti sociali; e qualsiasi livello sarà stabilito cozzerà comunque con l’articolo 3, che chiede di “rimuovere gli ostacoli” affinché possa esprimersi la pienezza della persona umana.

Dobbiamo pensare di aver buttato via 6 anni e mezzo di partecipazione e di intensa attività politica, con la costruzione di comitati sul territorio e di formazione e informazione su un tema così drammatico? No! Pur delusi ed amareggiati, continueremo a lottare, in primo luogo per impedire la “secessione dei ricchi”, che rimane ancora un tema attuale, così come la perenne “questione meridionale”, che ancora assilla il nostro Paese diseguale; analogamente faremo rispetto alle altre due riforme costituzionali. I Comitati parteciperanno alla mobilitazione sui quesiti referendari relativi alla cittadinanza e al diritto del lavoro, per eliminare forme di discriminazione razzista tra cittadini dovute alla discendenza familiare e per sanare le forme più gravi di sopruso padronale e di precariato nelle relazioni di lavoro subordinato.

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Seguiremo l’iter della legge sull’AD, non solo per continuare a formare e informare correttamente, ma per suscitare in tutte le Regioni la protesta contro l’AD, che – come ricorda sempre Francesco Pallante – è una facoltà, non un obbligo, e dunque per chiedere che nessuna Regione se ne avvalga. Inoltre chiameremo costituzionalisti, esponenti di partiti, sindacati, associazioni a riflettere su un progetto di modifica del Titolo V, per abrogare il 3 comma dell’articolo 116, e su come organizzare una campagna perché esso divenga un disegno di legge e oggetto di mobilitazione a livello popolare.



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