Donald Trump sta spostando l’America nel campo delle superpotenze «revisioniste»? Punta cioè a giocare lo stesso gioco destabilizzante dell’ordine globale, che Russia e Cina già praticano da tempo?
Una parola-chiave di questo tempo è «revisionismo». Però nell’accezione inglese, non in quella italiana: e sono molto diverse. In italiano di solito si parla di revisionismo quando la storia passata viene reinterpretata e riscritta in base a dottrine nuove, un’operazione spesso guidata da un regime e dai suoi ideologi. In inglese invece si parla di «potenze revisioniste» per indicare nazioni che vogliono «rivedere», per cambiarlo in modo sostanziale, l’ordine internazionale, i rapporti di forze, le gerarchie. In questa seconda accezione il revisionismo è ben più dirompente: non si tratta solo di riscrivere manuali di storia, ma di cambiare il mondo.
La Russia con Vladimir Putin ha cominciato a praticare il revisionismo nel modo più aggressivo e violento dall’inizio del millennio, con una serie di guerre: Georgia 2008, Crimea 2014, Ucraina 2022 ed altre aggressioni verso paesi vicini, più le puntate in Siria, Libia, nonché l’espansionismo militare in Africa e nell’Artico. Putin teorizza che l’ordine internazionale americano-centrico sta finendo perché l’America e l’intero Occidente sono in declino.
La Cina con Xi Jinping è perfino più revisionista. Sul piano geopolitico e militare ha in corso un poderoso riarmo, accompagnato da azioni espansioniste o apertamente aggressive contro una serie di vicini (Taiwan, Filippine, Vietnam, Giappone). A cominciare dall’Indo-Pacifico, la Cina vuole ridimensionare il ruolo dell’America. In termini militari la Cina finora non ha compiuto nulla di lontanamente paragonabile alle guerre di Putin. Però il suo revisionismo si estende alla sfera economica, finanziaria, tecnologica: tutti campi dove la Russia non può avere le sue ambizioni. Che si tratti di sostituire il dollaro nel sistema finanziario globale, di costruire nei Brics un anti-G7 cioè un club di nazioni emergenti antagonista verso l’Occidente, di costruire relazioni commerciali e infrastrutture in quattro continenti, di dominare le tecnologie «verdi», di inseguire e sorpassare l’America in tutte le tecnologie avanzate dai microchip all’intelligenza artificiale, il progetto revisionista cinese è quasi illimitato.
Ci sono anche potenze revisioniste di dimensioni regionali: Iran e Turchia, per esempio. A loro sta stretto l’assetto geopolitico del Medio Oriente e ciascuna ha un’agenda per cambiarlo.
L’America finora ha avuto il ruolo opposto, in difesa dell’ordine globale, anche perché quest’ordine – per quanto fragile e instabile – porta i segni dei suoi due periodi egemonici: la fine della seconda guerra mondiale quando l’establishment formatosi con Franklin Roosevelt costruì istituzioni come l’Onu, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, e alleanze come la Nato; poi la fine della guerra fredda quando nel periodo «unipolare» Ronald Reagan, George Bush padre, Bill Clinton, avviarono l’Età dell’Oro della globalizzazione, con vasti accordi di libero scambio (il Nafta, primo mercato unico con Canada e Messico), la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), più gli interventi militari nella prima guerra del Golfo (per difendere la sovranità del Kuwait) o quella dei Balcani.
Un primo strappo rispetto a quel ruolo stabilizzatore – e quindi conservatore – dell’America si produsse dopo l’11 settembre 2001. Per reagire all’attacco terroristico Bush figlio lanciò le guerre in Afghanistan e in Iraq che presto allargarono la loro missione: non solo colpire ed estirpare il terrorismo ma esportare democrazia ed egemonia Usa in Medio Oriente. I neoconservatori di Bush Jr. anticiparono anche un’avversione alle organizzazioni sovranazionali come l’Onu. Però proseguirono nel solco della tradizione su altri fronti come la cooptazione della Cina nel Wto (2001).
Ora Trump sembra – a tratti – giocare un gioco diverso. Mettendo insieme i suoi dubbi antichi sulla Nato con le sue uscite recenti su Groenlandia e Panama (che sembrano prefigurare una «nuova dottrina Monroe», il diritto al dominio nell’emisfero occidentale), si può avere l’impressione che lui si comporti come un outsider, che rimette in discussione l’ordine globale, anziché puntellarlo e difenderlo dagli assalti altrui. L’America trumpiana, in questo senso, può rispondere alle sfide di Cina e Russia diventando a sua volta revisionista. Non è necessariamente l’inizio dell’Apocalisse, anche perché abbiamo visto quanti insuccessi hanno subito gli ultimi difensori dell’ordine, Barack Obama e Joe Biden.
Il gioco di Trump, quando lui sembra mettere l’America in una posizione da outsider che si ribella all’ordine costituito, non è del tutto nuovo né unico. Da tempo la Cina fa qualcosa di simile. La Repubblica Popolare è stata forse la maggiore beneficiaria dell’Età dell’Oro della globalizzazione, il suo salto nella modernità e nel benessere è stato possibile grazie all’accesso che l’America e l’Occidente le hanno offerto ai propri mercati di consumo, alle proprie tecnologie, ai propri capitali. Anche la stabilità geopolitica e la sicurezza garantita dalla forza militare degli Stati Uniti, hanno aiutato il “made in China” a conquistare il mondo. La Cina di Xi Jinping – e in parte quella dei suoi predecessori – abbraccia una strategia della massima ambiguità: incassa ogni beneficio che può estrarre dai rapporti con l’Occidente, e al tempo stesso ne predica il declino e aspira apertamente a sostituirlo.
Trump, in questo senso, si comporta come Xi Jinping: la sua America non è mai stata così forte e così ricca, la sua superiorità sulle altre nazioni si è perfino consolidata, eppure lui si atteggia come un outsider che deve riparare una situazione iniqua, ristabilire un ordine internazionale più vantaggioso. Questa sua posizione può avere qualche giustificazione, e forse può essere abile. Però è difficile che l’ordine globale rimanga intatto, se a difenderlo non resta più nessuno.
27 gennaio 2025, 16:29 – modifica il 27 gennaio 2025 | 16:29
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