L’immagine postata su X dalla Casa Bianca sulla prima “deportazione” di migranti venerdì scorso – Ansa
Che cosa determina la diffusione di nuove parole? A volte la necessità, a volte la moda. I neologismi possono nascere perché non esiste il termine per indicare un fenomeno sociale, (“femminicidio”) o geologico (“Antropocene”), uno scandalo (“tangentopoli”) o un particolare genere di film (“cinepanettone”). L’affermazione e la diffusione delle nuove parole dipendono da molti fattori non prevedibili, e solo col tempo si può sapere se un termine è davvero entrato nell’uso dei parlanti o se si è trattato di un’apparizione effimera nell’universo linguistico di una lingua.
Ad affacciarsi alla ribalta lessicale è ora la parola “remigrazione”, che ha fatto le sue prime apparizioni nei quotidiani nel 2024, nel resoconto delle dichiarazioni dell’estrema destra austriaca e tedesca. All’inizio del 2025 il termine è stato usato dal deputato leghista Alessandro Corbetta, capogruppo della Lega al Consiglio regionale della Lombardia, che in un messaggio nei canali social ha scritto che «in Italia, come già si fa in Germania e in altri Paesi europei, è fondamentale iniziare a discutere seriamente di remigrazione, ovvero il rimpatrio dei clandestini e dei criminali nei Paesi di origine, ma anche di quegli stranieri che scelgono deliberatamente di non volersi integrare».
I leghisti hanno fatto propria la parola d’ordine lanciata da Alice Weidel, leader dell’ultradestra tedesca, designata candidata cancelliera dell’Afd alle elezioni di febbraio, che ha dichiarato «Abbiamo un piano per il futuro della Germania: chiudere completamente le frontiere, respingere ogni viaggiatore senza documenti, cancellare le prestazioni sociali per i non residenti e procedere a rimpatri su larga scala. Se si deve chiamare remigrazione, si chiamerà remigrazione», riprendendo a sua volta la parola usata dal leader austriaco Martin Sellner, teorico della remigrazione.
La “remigrazione” è dunque la nuova parola della destra radicale in Austria e in Germania. In aggiunta, negli Stati Uniti, durante la campagna elettorale, Donald Trump ha dichiarato che come presidente porrà immediatamente fine all’invasione dei migranti illegali in America riportandoli nei loro Paesi d’origine. Per definire questa operazione Trump non si è servito, finora, del termine “remigration”: la diffusione del nuovo termine dipenderà dall’uso che ne farà in futuro. Anche le foto dei migranti in catene per essere riportati in Guatemala da El Paso, in Texas, da un aereo militare, diffuse recentemente dalla stampa, hanno contribuito alla diffusione della parola “remigrazione”, perché le immagini sottolineavano quanto quel ritorno in patria fosse un ritorno obbligato e violento.
Non a caso l’espressione usata per descrivere quelle partenze è stata invece, da parte di chi condanna quella scelta politica, “deportazione di massa”.
Da un punto di vista linguistico, pur trattandosi di una parola tutta italiana, composta da “migrazione” con l’aggiunta del prefisso “re-” che indica «il ripetersi di un’azione in senso contrario», l’arrivo del neologismo nella nostra lingua è avvenuto attraverso l’italianizzazione della parola inglese “remigration”, cioè, alla lettera, “migrazione indietro”, ma il cui significato corrisponde, in realtà, a «ritorno forzato in patria».
La parola “remigrazione” deriva dal verbo “remigrare”, verbo già usato col significato di “ritornare nel luogo d’origine” da Giordano Bruno nello “Spaccio della bestia trionfante”, pubblicato a Londra nel 1584. Per ora i dizionari della lingua italiana non hanno ancora registrato il sostantivo: il suo ingresso ufficiale nella nostra lingua dipenderà dalla frequenza delle citazioni, nell’uso scritto e parlato, per indicare i ritorni forzati nei Paesi d’origine. Il lavoro di lessicografa mi costringe a osservare le parole, anche le più odiose, con distacco e obiettività: ciò non mi impedisce, però, di considerare una sconfitta l’ingresso nella nostra lingua di nuove parole che corrispondono a pratiche eticamente condannabili.
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