Immaginiamo l’ordine internazionale come una fortezza assediata da «barbari», potenze esterne e antagoniste. Di colpo, il sovrano che stava dentro la fortezza, anziché difenderla, appare alle spalle dei capi delle tribù barbariche: ora anche lui partecipa all’assalto. È lo shock di Donald Trump: si comporta come un outsider, non sembra interessato a conservare l’ordine globale, non più di quanto lo siano Vladimir Putin e Xi Jinping. Per descrivere l’egemonia americana nel Novecento nacque l’immagine di un «impero su invito».
Cioè un impero la cui sfera d’influenza non fu costruita (salvo rare eccezioni) attraverso annessioni di colonie. Spesso gli altri Paesi vollero entrare dentro quella sfera, perché conveniva. Franklin Roosevelt e i suoi successori dopo la Seconda guerra mondiale costruirono regole globali che facevano gli interessi dell’America ma in una certa misura incorporavano anche gli interessi di tanti altri.
L’«impero su invito» ebbe un trionfo negli anni Novanta: molti popoli europei, ex sudditi dell’Unione sovietica, chiesero di entrare nella Nato.
Ma una parte d’America si è convinta — non sempre a torto — che col passare del tempo «l’impero su invito» si è affollato di parassiti, che estraggono benefici gratis o quasi. Di conseguenza il trumpismo sposta l’America nel campo delle superpotenze «revisioniste». In inglese questo termine indica nazioni che vogliono rivedere, per cambiarlo in modo radicale, l’ordine internazionale, i rapporti di forze, le regole.
La Russia pratica un revisionismo violento dall’inizio del millennio, con una serie di guerre: Georgia 2008, Crimea 2014, Ucraina 2022 e altre aggressioni verso Paesi vicini, più le puntate in Siria, Libia, nonché l’espansionismo militare in Africa e nell’Artico.
La Cina di Xi è perfino più revisionista. Ha in corso un poderoso riarmo accompagnato da azioni espansioniste contro i vicini (Taiwan, Filippine, Vietnam, Giappone). A cominciare dall’Indo-Pacifico, la Cina vuole emarginare l’America. In termini militari la Cina finora non ha compiuto nulla di paragonabile alle guerre di Putin. Però il suo revisionismo si estende alla sfera economica, finanziaria, tecnologica. Che si tratti di sostituire il dollaro nel sistema finanziario globale, di costruire nei Brics un anti-G7 cioè un club di nazioni emergenti antagonista verso l’Occidente, di costruire relazioni commerciali e infrastrutture in quattro continenti, di dominare le tecnologie «verdi», di inseguire e sorpassare l’America in tutte le tecnologie avanzate dai microchip all’intelligenza artificiale, il progetto revisionista cinese è illimitato.
L’America aveva il ruolo opposto: in difesa dell’ordine globale, anche perché quest’ordine — per quanto instabile — porta i segni dei suoi due periodi egemonici: la fine della guerra mondiale quando l’establishment formatosi con Roosevelt costruì istituzioni come l’Onu, il Fondo monetario, la Banca mondiale, e alleanze come la Nato; poi la fine della guerra fredda quando nel periodo «unipolare» Ronald Reagan, George Bush padre, Bill Clinton, avviarono l’Età dell’Oro della globalizzazione, con accordi di libero scambio, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), più gli interventi militari nella prima guerra del Golfo (per difendere la sovranità del Kuwait) e quella dei Balcani. Un primo strappo rispetto a quel ruolo stabilizzatore dell’America ci fu dopo l’11 settembre 2001. Per reagire all’attacco Bush figlio lanciò le guerre in Afghanistan e in Iraq: non solo per estirpare il terrorismo ma per esportare democrazia ed egemonia Usa in Medio Oriente. I neoconservatori di Bush Jr anticiparono anche un’avversione alle organizzazioni sovranazionali. Però proseguirono nel solco della tradizione su altri fronti come la cooptazione della Cina nel Wto (2001).
Trump sembra giocare un gioco diverso. Mettendo insieme i suoi dubbi antichi sulla Nato con le sue uscite recenti su Groenlandia e Panama (che sembrano prefigurare una «nuova dottrina Monroe», il diritto al dominio nell’emisfero occidentale), si ricava l’impressione di un outsider che piccona l’ordine globale, anziché difenderlo dagli assalti altrui.
Il gioco di Trump non è del tutto nuovo né unico. Da tempo la Cina fa qualcosa di simile. La Repubblica Popolare è stata la maggiore beneficiaria dell’Età dell’Oro della globalizzazione, il suo salto nella modernità e nel benessere fu possibile grazie all’accesso che l’Occidente le offrì ai propri mercati di consumo, alle proprie tecnologie, ai propri capitali. Xi incassa ogni beneficio che può estrarre dai rapporti con l’Occidente, al tempo stesso ne predica il declino e aspira apertamente a sostituirlo. Trump, in questo senso, si comporta come Xi: la sua America non è mai stata così forte e così ricca, la sua superiorità sulle altre nazioni si è perfino consolidata, eppure lui si atteggia come un outsider che deve riparare una situazione iniqua, ristabilire un ordine internazionale più vantaggioso. Questa sua posizione può avere qualche giustificazione, e forse può essere abile. Però è difficile che l’ordine globale rimanga intatto, se a difenderlo non rimane più nessuno.
Che cosa resta dell’America rooseveltiana, dell’«impero su invito»? Le forze che preservano una visione globale degli interessi americani sono proprio quelle oligarchie capitalistiche che spaventano gli europei. Da Elon Musk a Apple, Amazon, Google, Microsoft, Meta-Facebook, Nvidia e tanti altri, i potentati economici hanno ancora bisogno di un mondo aperto e accogliente. La dinamica di queste lobby dentro l’Amministrazione Trump sarà più interessante e complessa, rispetto alla semplificazione in voga.
28 gennaio 2025
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