report internazionale ricostruisce la tratta degli schiavi

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Nel documento State Trafficking presentato al Parlamento europeo decine di testimonianze di sopravvissuti: così la Garde nationale tunisina cattura e rapisce, per poi rivendere i prigionieri ai libici. Che li usano nei lavori forzati o per chiedere riscatti alle famiglie. Cecilia Strada: «L’Europa legittima a livello politico la violenza, attraverso l’esternalizzazione delle frontiere»

«Alla frontiera tra la Libia e la Tunisia siamo passati attraverso sette basi militari e in ognuna siamo stati picchiati e torturati dai soldati tunisini». È la testimonianza di W., ragazzo camerunense di 25 anni che denuncia di essere stato catturato e inserito all’interno di un circuito che assomiglia a una vera e propria tratta degli schiavi moderna.

W. racconta nel dettaglio di essere stato portato insieme ad altre persone al confine con la Libia dall’esercito tunisino, dove ad attenderli c’erano soldati libici e alcuni intermediari pronti a «fare affari». «Siamo stati divisi in gruppi di dieci persone e i libici ci hanno comprati pagando i soldati tunisini davanti a noi».

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Le decine di testimonianze raccolte da un gruppo di ricerca internazionale all’interno del report State Trafficking, «Tratta di Stato», presentato il 29 gennaio al Parlamento europeo, denunciano un sistema di cattura e vendita degli esseri umani a opera della Garde nationale tunisina, tra abusi di potere, stupri e torture. Nel mirino ci sono uomini, donne e bambini sequestrati in quanto neri; catturati in mare mentre erano in viaggio sui barconi verso l’Europa, ma anche mentre si recavano al lavoro, per strada e nelle loro abitazioni. Tra loro ci sono persone con passaporto e timbro di entrata in Tunisia, altre con documenti rilasciati da Unhcr. Dopo essere stati trasferiti nei campi di detenzione e privati dei loro passaporti, sono stati portati con la forza sul confine libico.

Dalla cattura alla vendita

I ricercatori spiegano che il coinvolgimento della Garde nationale tunisina inizia con la cattura degli ostaggi e prosegue per tutto l’arco della detenzione, fino alla vendita dei prigionieri. Un esempio dei metodi di cattura, si trova nella testimonianza di M., ivoriano, che racconta di essere stato fermato mentre cercava di attraversare il Mediterraneo: «La marina tunisina ha fatto una barricata in mare con i suoi mezzi per non farci passare. Poi per fermarci, hanno iniziato a girarci attorno velocemente, sollevando onde. Ci siamo rovesciati. Militari tunisini ci dicevano che gli italiani sono razzisti, che non dobbiamo partire, che il mare è chiuso».

Ricondotte in Tunisia, le persone migranti e gli altri prigionieri affrontano un lungo percorso di detenzione che si snoda tra le roccaforti della Garde nationale. Il porto della città costiera di Sfax, così come il suo carcere e il commissariato centrale, insieme alle strutture della gendarmeria a El Amra, a pochi chilometri da Sfax, sono stati identificati come i principali «centri di concentrazione» dei prigionieri da cui partono i bus per trasferire le persone verso la frontiera libica e algerina.

Nel corso della detenzione, perquisizioni e molestie sono all’ordine del giorno, soprattutto sulle donne, trattate come oggetti sessuali. Tra loro ci sono anche donne incinte e con bambini, lasciate senza cure e cibo per giorni. Le sopravvissute a queste violenze condividono racconti terribili su ciò che avviene prima e durante i viaggi verso la frontiera: «Sui bus la Garde nationale perquisisce i nostri bambini e le donne, mette le mani sulle donne e le violenta di fronte ai loro mariti. Se ne fregano, hanno rotto la testa di molti uomini perché protestavano».

Un video girato all’interno di uno dei campi di detenzione al confine tra Tunisia e Libia (ultima tappa prima dell’espulsione) mostra decine di uomini ammassati circondati da reti metalliche. Chi è stato rinchiuso al suo interno chiama questo luogo «gabbia». Qui gli uomini vengono lasciati senza cibo né acqua per varie settimane. I prigionieri che muoiono per le violenze subite e l’assenza di cure vengono seppelliti attorno al campo. È proprio nel deserto della frontiera tunisino-libica che l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha annunciato lo scorso luglio di aver avviato un’indagine sulla presenza di fosse comuni.

Alla base di questo sistema di violenza istituzionale denunciato nel report, c’è la svolta autoritaria del Presidente tunisino Kais Saied con la sua politica repressiva nei confronti dei migranti di origine sub-sahariana, ma non solo. Secondo l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che ha analizzato le violazioni dei diritti umani e le responsabilità di quanto documentato dalla ricerca, anche il finanziamento europeo alle politiche di respingimento ed espulsione in Tunisia ha un ruolo cruciale.

«L’Unione europea purtroppo paga e finanzia questo sistema – dice Cecilia Strada, tra gli eurodeputati che hanno promosso la presentazione del report a Bruxelles – Questo significa anche legittimare a livello politico la violenza dietro l’esternalizzazione delle frontiere pagando altri per fare ciò che l’Europa non può fare, cioè violare i diritti umani».

In Libia

Legati e scortati da convogli militari, i prigionieri vengono venduti al confine con la Libia in cambio di denaro, hashish e carburante. Gli uomini, secondo le testimonianze, vengono comprati per 100 dinari (circa 30 euro) e le donne, vendute in molti casi come schiave sessuali, per 300 dinari (circa 90 euro). Tra gli acquirenti ci sono gruppi interamente composti da forze armate in uniforme e con mezzi ufficiali, personale armate in abiti civili o milizie prive di uniforme. Chi vende consegna anche pacchi di cartone o sacchi neri contenenti telefoni e passaporti. Ribellarsi durante la transazione significa rischiare ancora una volta la vita: «Ci hanno puntato le armi addosso. Non puoi fuggire, perché i tunisini ti possono sparare».

Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Dopo la vendita, inizia la detenzione in Libia, anche in questo caso in mano ai militari. Dalle informazioni raccolte e dal lavoro di geolocalizzazione, i ricercatori sostengono che il principale centro di approdo della tratta di esseri umani è la prigione di Al Assah, gestito dalla Guardia di frontiera libica e dal Dipartimento per il contrasto della migrazione illegale, entrambi dipendenti dal Ministero dell’Interno di Tripoli.

Al Assah, come molte altre prigioni in Libia, funziona anche come mercato del lavoro forzato. È in questi luoghi che rimangono coloro che non riescono a saldare il proprio debito entro i primi giorni di detenzione. Chi entra nelle prigioni libiche, infatti, è sotto ricatto: potrà uscirne solo pagando il proprio riscatto, che può arrivare fino a mille euro. C. è stato liberato grazie al pagamento dei famigliari a cui aveva inviato alcune sue foto che lo ritraevano ridotto pelle e ossa. Ma in prigione C. si considerava fortunato perché poteva lavorare fuori dalla cella: «Quando vai a fare i lavori forzati, almeno hai questo privilegio di vedere il fuori e di respirare un po’ di aria pura».

La stessa Guardia di frontiera libica è uno dei soggetti beneficiari del programma di assistenza e formazione alla gestione del confine finanziato dall’Unione Europea.

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