Rivalutazione del canone di enfiteusi

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La rivalutazione del canone enfiteutico sui fondi ad uso civico: giurisdizione e dubbi di legittimità

 

ABSTRACT: Il principio elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui, nel caso di legittimazione all’occupazione di fondi soggetti ad uso civico ex art. 10 della Legge n. 1766/1927, ossia fondi di proprietà della PA, il canone enfiteutico da corrispondere al Comune debba essere annualmente rivalutato, sembra non tenere conto del fatto che, in materia di espropriazione per pubblica utilità, e cioè nell’opposto caso in cui il bene non sia ancora di proprietà pubblica, le migliorie apportate dal privato non concorrono a determinare il corrispettivo a questi dovuto a titolo di indennizzo per quella che sarà la perdita della proprietà. Ciò comporta che, applicando la rivalutazione al canone enfiteutico di cui all’art. 10 della Legge, le migliorie apportate dall’enfiteuta – che normalmente sono utilizzate a compensazione del canone – vengano ad essere sostanzialmente “vanificate”, esattamente al pari di quelle apportate dal privato su un bene (quello oggetto di esproprio) che non è ancora di proprietà pubblica.

The principle developed by constitutional jurisprudence, according to which, in the case of legitimation to occupy funds subject to civic use pursuant to art. 10 of Law no. 1766/1927, i.e. funds owned by the PA, the emphyteutic fee to be paid to the Municipality must be annually re-evaluated, seems not to take into account the fact that, in the matter of expropriation for public utility, i.e. in the opposite case in which the asset does not is still public property, the improvements made by the private individual do not contribute to determining the amount due to them as compensation for what will be the loss of the property. This means that, by applying the revaluation to the emphyteutic rent referred to in the art. 10 of the Law, the improvements made by the emphyteuts – which are normally used to compensate for the rent – are substantially “vanished”, exactly like those made by a private individual on an asset (the one subject to expropriation) which is not yet of public property.

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Gli usi civici sono disciplinati dalla legge del 16.06.1927, n. 1766 (considerata legge fondamentale sugli usi civici, di seguito “Legge”) e dal Regio decreto del 26.02.1928, n. 332 “Approvazione del regolamento per la esecuzione” della predetta Legge. Essi sono diritti che la collettività esercita su un bene di proprietà privata.

L’art. 9 della Legge stabilisce che quando le terre di uso civico appartenenti ai Comuni siano state occupate da privati, tale occupazione potrà essere “legittimata” qualora ricorrano le seguenti condizioni: che l’occupatore vi abbia apportato sostanziali e permanenti migliorie; che la zona occupata non interrompa la continuità dei terreni; che l’occupazione duri almeno da dieci anni.

Se la legittimazione non avviene, le terre dovranno essere restituite al Comune.

 

A norma dell’art. 10 della Legge, il Commissario, nel concedere la legittimazione, può imporre sul fondo occupato, ed a favore del Comune, “un canone di natura enfiteutica, il cui capitale corrisponda al

valore del fondo stesso, diminuito di quello delle migliorie, aumentato di almeno 10 annualità di

interessi”. Il privato occupante ha la possibilità di diventare proprietario del terreno corrispondendo al Comune una somma a titolo di “affrancazione” (c.d. “capitale di affranco”).

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Nel giudizio di cui alla sentenza in commento, il Comune chiedeva che il capitale di affranco fosse determinato mediante l’aggiornamento del canone all’effettiva realtà economica del fondo e che l’affrancazione fosse condizionata al suo pagamento nonché alla corresponsione dei canoni scaduti ed insoluti. Il Tribunale accoglieva le richieste del Comune.

La società proponeva appello affermando la nullità della sentenza per difetto di giurisdizione del GO, e sostenendo inoltre che il Tribunale aveva errato nell’assimilare l’istituto della legittimazione dell’occupazione di terre civiche a quello dell’enfiteusi, ragion per cui il canone annuo stabilito dal Commissario per la Liquidazione degli Usi civili ai fini della determinazione del capitale di affranco non avrebbe dovuto essere rivalutato.

 

La Corte d’Appello rigettava le impugnazioni, per i seguenti motivi:

• in merito al (presunto) difetto di giurisdizione del GO, la rivalutazione del canone enfiteutico, siccome afferisce all’ammontare dell’obbligazione, ossia alla fase esecutiva del rapporto con la PA (rapporto nato con il provvedimento di legittimazione), non può che rientrare nel suddetto ambito giurisdizionale.  

• in merito al fatto che l’ordinanza commissariale di legittimazione dell’occupazione del fondo ad uso civico, aveva attribuito ai relativi concessionari il diritto reale di piena proprietà dei fondi e non quello di enfiteusi, la Corte osservava che la finalità della Legge è non già quella di consentire agli occupatori l’acquisto della proprietà dei terreni, ma quella di determinare la cessazione dell’occupazione abusiva dei beni di uso civico, e che l’obbligo, stabilito dall’art. 10, di provvedere al pagamento di un canone enfiteutico esclude, di per sé stesso, la sussistenza di un diritto di “proprietà”.

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Di conseguenza, poiché la legittimazione dell’occupazione costituisce nella sostanza la concessione di un diritto di enfiteusi, sia il canone sia il relativo capitale di affranco avrebbero dovuto essere periodicamente aggiornati “secondo coefficienti di maggiorazione idonei a mantenerne adeguata la corrispondenza con l’effettiva realtà economica”, e ciò in conformità ai principi espressi dalla Corte Costituzionale (7 aprile 1988, n. 406; 23 maggio 1997, n. 143; 20 maggio 2008, n. 160).

 

La Cassazione Sezione Seconda Civile, nell’ordinanza interlocutoria n.  1001 del 16.01.2025, si è concentrata soprattutto sul primo aspetto, quello relativo alla giurisdizione. Essa prende atto della tesi sostenuta dai ricorrenti, secondo la quale il Giudice di primo grado, avendo quantificato sia il valore del capitale fondiario che quello del canone di natura enfiteutica in una misura maggiore di quella stabilita dal Commissario Liquidatore degli Usi Civici, ha, sostanzialmente, modificato un elemento essenziale del provvedimento di legittimazione adottato da quest’ultimo, e quindi avrebbe finito con il violare i limiti della propria giurisdizione. In sostanza, in base a tale tesi, il Giudice avrebbe dovuto limitarsi a verificare soltanto che la richiesta del Comune fosse conforme alla decisione assunta dal Commissario.

La Sezione – preso atto che sul punto vi è un orientamento (Cass, Sez. U, Sentenza n. 617 del 15/01/2021), secondo cui la controversia avente ad oggetto la rivalutazione del canone enfiteutico e del capitale di affrancazione di un terreno oggetto di un provvedimento di legittimazione alla occupazione, rientra nella giurisdizione del Giudice amministrativo, e però vi è un altro orientamento (Cass, Sez. U, Sentenza n. 9286 del 9/11/1994, e Cass, Sez. U, Sentenza n. 8673 dell’8/8/1995), secondo il quale la giurisdizione è del Giudice ordinario – con la suddetta ordinanza interlocutoria ha rimesso al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale assegnazione del ricorso alle SSUU, le seguenti questioni: “a chi spetti determinare la rivalutazione del canone enfiteutico e del capitale di affrancazione di un terreno oggetto di un provvedimento di legittimazione alla occupazione ai sensi dell’art. 9 della legge 16 giugno 1927, n. 1766, anche alla luce della sentenza della Corte Cost. n. 39 del 2007 e a quale giurisdizione spetti la conseguente controversia”.

 

In merito al primo quesito sollevato dall’ordinanza in commento, e cioè “a chi spetti determinare la rivalutazione del canone enfiteutico e del capitale di affrancazione di un terreno oggetto di un provvedimento di legittimazione alla occupazione ai sensi dell’art. 9 della legge 16 giugno 1927, n. 1766” – l’art. 27 della Legge prevede che i Commissari Regionali per la liquidazione degli usi civici debbano procedere all’attuazione di tutte le disposizioni ivi contenute, e quindi anche di quelle relative alla determinazione del canone enfiteutico, e che gli stessi debbano provvedere a ciò esercitando funzioni non soltanto amministrative ma anche “giudiziarie”. Non a caso, la stessa norma prevede che i Commissari vengono scelti fra magistrati di grado non inferiore a quello di consigliere di Corte di appello.

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L’art. 32 della Legge stabilisce che “contro le decisioni dei commissari delle questioni concernenti l’esistenza, la natura e la estensione dei diritti di cui all’art. 1 e la rivendicazione delle terre è ammesso reclamo dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria”, e che tali questioni “sono disciplinate dall’articolo 33 del decreto legislativo 1°settembre 2011, n. 150.” Ma le suddette controversie, per le quali sussiste la possibilità di ricorso avverso le decisioni del Commissario, sono soltanto quelle che attengono alla “esistenza, natura ed estensione” dei diritti di uso civico, e non anche quelle riguardanti la rivalutazione del canone enfiteutico pagato da chi sia stato legittimato all’occupazione.

Pertanto, al suddetto quesito sembrerebbe doversi dare una risposta negativa, nel senso che, in materia di quantificazione del canone enfiteutico, il Giudice non può sostituirsi al Commissario, appunto perché quest’ultimo è investito anche di poteri “giudiziari”.

 

Ma, se così fosse, cioè se la quantificazione operata dal Commissario fosse insindacabile da parte del Giudice, allora non avrebbe senso porsi la seconda questione, ossia “a quale giurisdizione spetti la conseguente controversia”. In tal caso, infatti, il Giudice ordinario, quand’anche venisse investito di un ricorso, non potrebbe sindacare la suddetta quantificazione, e pertanto dovrebbe dichiararsi in “difetto di giurisdizione” (art. 37 c.p.c.).

L’art. 962 c.c., il quale prevedeva la revisione in aumento (ed anche in diminuzione) del canone enfiteutico, venne abrogato dall’art. 18 della Legge n. 607 del 22.07.1966.

Tuttavia, l’art. 5 della Legge n. 1138/1970, successiva pertanto alla norma abrogativa, stabilisce che “il canone annuo delle enfiteusi urbane ed  edificatorie  non  può  essere  superiore  a  quello  fissato  all’inizio  del  rapporto enfiteutico,   salva,   per   i   rapporti   costituiti   anteriormente   al   28   ottobre   1941,   la rivalutazione di cui alla legge 10 luglio 1952, n. 701”.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 53/1974, affermò che l’abrogazione della norma attributiva del diritto alla rivedibilità del canone – ossia dell’art. 962 c.c. – potesse ritenersi ammissibile solo nei confronti dei vecchi rapporti enfiteutici, costituiti anteriormente all’entrata in vigore del libro “della proprietà” del codice civile. Essa riconobbe che “il diritto a chiedere la revisione periodica del canone riconosciuto ad entrambe le parti dall’art. 962 del codice civile, ha   conferito   al   contratto   un   nuovo   elemento   di   rilievo rispetto al tipo tradizionale”. Pertanto, dichiarò incostituzionale l’art. 5 sopra citato nella parte in cui escludeva dalla rivalutazione anche i rapporti di enfiteusi urbana ed edificatoria costituiti successivamente alla data del 28 ottobre 1941, così come dichiarò incostituzionale l’art. 6 della stessa Legge a motivo del fatto che la possibilità di rivalutazione dei canoni ivi prevista, con esclusivo riferimento al periodo 1 gennaio 1963 – 31 dicembre 1968, risultava manifestamente inadeguata a sostituire il criterio di revisione stabilito dall’art. 962 del codice civile.

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Pertanto, la suddetta sentenza, alla quale si è riallacciata anche la pronuncia n. 160/2008, ha, di fatto, riaffermato il diritto del Comune (concedente) alla revisione, e quindi alla “rivalutazione”, del canone enfiteutico.

Il pagamento del canone afferisce alla fase esecutiva del rapporto concessorio instaurato tra il privato occupante ex art. 9 della Legge ed il Comune, e quindi deve ritenersi applicabile la norma contenuta nell’art. 133 comma 1 lett. B) del D.lgs. 104/2010 (Codice del Processo Amministrativo), il quale prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, tra l’altro, le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, “ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi”, le quali quindi sono da intendersi attribuite alla giurisdizione del Giudice ordinario.

 

Tuttavia, in merito al diritto del Comune di chiedere la rivalutazione del canone enfiteutico ex art. 10 della Legge, si rileva quanto segue.

Tale norma, come abbiamo visto, prevede che l’importo del canone debba essere diminuito del valore delle migliorie apportate dal privato. La “miglioria” è un’opera che incrementa il valore del fondo, e tale incremento, se da un lato ha come effetto quello di aumentare il godimento da parte del privato legittimato all’occupazione, dall’altro produce, quale risultato, quello di elevare la redditività di un terreno che, al momento, nell’attesa di una (eventuale) richiesta di affrancazione da parte del privato, è e resta di proprietà del Comune e che quindi, al termine dell’enfiteusi, ritornerà a tale Ente con un valore sicuramente maggiore. E’ proprio per questo che, in base alla norma sopra citata, l’importo delle migliorie può essere utilizzato a compensazione del canone di enfiteusi dovuto. La domanda, allora, è la seguente: la rivalutazione annua del canone di enfiteusi non va, in qualche modo, a “vanificare” questa compensazione? Il privato, se da un lato può compensare il canone con i miglioramenti da egli apportati, e poi però, dall’altro lato, deve ogni anno pagare un incremento del canone stesso (rivalutazione), non si vede, in tal modo, “annullare” i vantaggi derivanti dalla compensazione? La rivalutazione deriva dalla necessità di adeguare il canone a quello che è l’aumento del costo della vita, e quindi dal fatto che il canone, ad un certo punto, può non essere più sufficiente a consentire al concedente (che, in tal caso, è un Ente pubblico) di soddisfare le proprie esigenze primarie (che, in tal caso, sono della collettività, perché il Comune, con le entrate derivanti dai canoni enfiteutici, deve erogare servizi pubblici).

Il Comune, però, fin quando il privato non chiede l’affrancazione, rimane proprietario del fondo, un fondo che quindi, al termine dell’enfiteusi, tornerà ad esso, il quale, grazie alle migliorie apportate dal concessionario (enfiteuta), potrà goderne (o disporne) con ancor maggiori vantaggi per la collettività stessa. Allora, un principio potrebbe essere quello di applicare la rivalutazione non al canone enfiteutico, ma solo ed esclusivamente alla somma che il privato verrà chiamato a pagare nel caso di eventuale domanda di affrancazione (c.d. “capitale di affranco”), in quanto è soltanto in tale sede che il Comune dismetterà il suo diritto di proprietà in favore del privato stesso.

Tale principio potrebbe essere basato sulla seguente considerazione.

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In materia di espropriazione per pubblica utilità, e cioè quando il “valore del fondo” costituisce non già la base sulla quale calcolare il canone dovuto dal privato (come nell’uso civico) bensì il corrispettivo da erogare al privato stesso a titolo di indennizzo per la perdita della proprietà, non si tiene conto, nella determinazione di tale valore, delle “migliorie” che egli abbia realizzato unicamente “allo scopo di conseguire una maggiore indennità” (art. 32 comma 2 DPR 327/2001). Di conseguenza, il Comune, quando pagherà al privato l’indennità di esproprio, non dovrà pagare anche il valore dei miglioramenti apportati da quest’ultimo.

In questo ambito, non conta nulla il fatto che la miglioria abbia incrementato il “valore del bene”, ed abbia quindi generato, a favore della PA, la possibilità, ad esproprio eseguito, di acquisire la proprietà di un bene la cui redditività, anche in termini di fruizione da parte della collettività, sarà aumentata. Non conta nulla in quanto in tal caso il suddetto valore rappresenta la base su cui dovrà essere quantificata una prestazione (pagamento dell’indennizzo) che la PA dovrà adempiere in favore del privato, e non (come nell’uso civico) di una prestazione (pagamento del canone enfiteutico) che il privato deve eseguire a favore della PA. Pertanto, le migliorie apportate dal privato al fondo, quand’anche dovessero comportare un oggettivo aumento del valore (e quindi delle potenzialità future) del medesimo, non potranno determinare, a carico della PA, un maggior esborso di indennizzo, dovendo quest’ultima ancora acquisire (esproprio) la proprietà del bene, mentre possono (anzi: debbono, vedi la compensazione di cui all’art. 10 Legge)  determinare, a carico della stessa PA, l’obbligo di rinunciare ad incassare una parte del canone pagato su un bene che è e resta (nell’attesa di un’eventuale affrancazione) di proprietà di quest’ultima.

Il principio, quindi, è quello per cui la miglioria apportata dal privato non può produrre un maggior esborso economico da parte della PA quando questa deve ancora acquisire, mediante l’esproprio, la proprietà del bene (privato) su cui essa è stata eseguita, mentre è destinata a produrre una minore entrata per le casse erariali (vedi la suddetta compensazione) quando viene eseguita su un bene che è già di proprietà pubblica. Quindi ciò che fa la differenza a favore del privato è la titolarità “pubblica” del diritto di proprietà: finchè il bene rimane di proprietà della PA, il privato ha diritto a fruire di determinati vantaggi (vedi: compensazione del canone). A maggior ragione, allora, la tesi secondo la quale, in materia di uso civico, la rivalutazione annua, proprio per non vanificare i suddetti vantaggi, dovrebbe essere applicata solo al capitale pagato per l’affrancazione, ossia quando la PA perderà definitivamente il suo diritto di proprietà, e non dovrebbe invece essere applicata anche al canone enfiteutico, a fronte del quale la stessa rimane ancora proprietaria del bene, appare essere fondata, in quanto la perdita del diritto di proprietà da parte della PA,  conseguente all’affrancazione del fondo dall’uso civico, è equiparabile all’assenza di tale diritto in capo a quest’ultima, conseguente al fatto che il bene deve ancora essere espropriato: come in questo secondo caso non si tiene conto delle migliorie apportate dal privato, così nel primo caso è corretto che la somma da quest’ultimo pagata per l’affrancazione debba essere rivalutata, ma non appare corretto, alla stregua del principio di cui sopra, che venga rivalutato anche il canone enfiteutico.

Ciò soprattutto se si considera che in ogni caso tale canone, a norma dell’art. 10 Legge, deve essere “aumentato di almeno 10 annualità di interessi”, aumento che il privato legittimato all’occupazione può evitare solo se a sua volta esegue, a favore del Comune, “una prestazione sia in generi che in denaro”.

Quindi, se da un lato, come sostenuto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 53/1974, il diritto del concedente (in tal caso, il Comune) alla revisione periodica del canone deve essere salvaguardato, dall’altro lato la spettanza di tale diritto meriterebbe, a parere di chi scrive, un ulteriore approfondimento, alla luce sia del fatto che le migliorie apportate dall’enfiteuta su un bene che appartiene alla PA non possono essere sostanzialmente vanificate dalla suddetta revisione (altrimenti esse finirebbero con il ricevere la stessa disciplina, restrittiva e penalizzante, prevista per quelle eseguite su beni ancora da espropriare, ossia non in proprietà della PA), sia del fatto che la Legge comunque già prevede un consistente aumento del canone (10 anni di interessi non sono pochi…).



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