Undici anni dopo, la svolta in un cold case: identificati i sicari di un 46enne. Il movente: la droga


LECCE – Una presunta partita di cocaina dietro un tentato omicidio. Undici anni dopo risolto un cold case: il ferimento, il 9 maggio del 2014, del leccese Massimo Caroppo, all’epoca 46enne, ferito con tre colpi di pistola, di cui due in pieno volto nei pressi di un vecchio deposito di auto rottamate nella zona di San Ligorio, alla periferia del capoluogo salentino. La vittima, una volta sentito dagli investigatori, riferì di aver reagito ad un tentativo di rapina. Agli investigatori, raccontò che mentre stava rientrando a casa a bordo della sua Mercedes Classe E, venne affiancato da un’altra auto con a bordo almeno due persone che avrebbero cercato di bloccarlo per portargli via l’auto (dove però gli investigatori trovarono un caricatore e 4 mila euro in contanti).

Caroppo, per opporsi, riferì, aprì lo sportello di guida e a quel punto venne raggiunto da diversi colpi di pistola. Il racconto fornito non convinse gli investigatori che hanno sempre ritenuto in tutti questi anni come il racconto della vittima potesse essere un tentativo di depistare le indagini dall’effettiva casuale di quel grave ferimento. Che, ora, è stato cristallizzato nell’ordinanza a firma della gip Francesca Mariano. L’accusa di tentato omicidio viene contestata a Marco Franchini, di 50 e a Fabio Marzano, di 55, responsabili dei diversi colpi d’arma da fuoco non riuscendo nel loro intento a causa della immediata reazione della vittima che, verosimilmente, riuscì a disarmare Marzano, costringendolo alla fuga insieme al complice.

Le indagini, condotte in questi anni, si sono avvalse delle dichiarazioni di alcuni collaboratori. Nel 2019 è stato Tommaso Montedoro a raccontare di contrasti sorti tra Massimo Caroppo e Marzano, suo grande amico e socio in affari a seguito di una fornitura di cocaina da Genova. Si trattava di sette chili di cocaina per centocinquantamila euro. Il Caroppo ebbe a consegnare centocinquantamila euro e si recò a Genova con un altro ragazzo con mezzi diversi. Una volta preso il borsone con la cocaina scoprirono però che all ‘interno del pacco non vi era lo stupefacente. Di tale situazione il Caroppo Massimo incolpava Marsano Fabio che era stato colui che gli aveva dato il riferimento per l’acquisto della cocaina. A dire poi del Marsano, dopo i fatti di Genova, il Caroppo ebbe un incontro con i calabresi.

Nell’occasione dell’incontro avvenuto presso una benzina sulla strada per Frigole il Caroppo consegnò ai calabresi un biglietto ove vi era indicato il nome di Marsano come infame e confidente della polizia. Il Marsano – continua il collaboratore – venne a sapere quanto innanzi e preso dall’ira pose in essere l’azione nei confronti di Massimo Caroppo. Dal dialogo in argomento traspariva il rapporto di amicizia che legava i due, tanto che Caroppo si era recato all’appuntamento con il suo carnefice senza nutrire alcun sospetto e la circostanza che, quella sera, Fabio Marzano aveva asportato la droga detenuta dalla vittima (lo sai il fatto… che gli ha levato’).

Le informazioni fornite dai collaboratori di giustizia, vennero ulteriormente rafforzate da un’intercettazione durante il colloquio in carcere del 16 maggio 2014, tra il detenuto Pasquale Briganti, detto Maurizio e una familiare. La donna, utilizzando un frasario convenzionale, intercalato da riferimenti ai familiari del detenuto, comunicava al compagno che Fabio Marzano era l’autore del tentato omicidio di Massimo Caroppo ed era intenzione dello stesso distruggere il cadavere appiccandovi il fuoco con la benzina.

“E’ dunque evidente – scrive la giudice nell’ordinanza – che chi sparò indirizzò i colpi verso regioni vitali del corpo, sicchè chi aprì il fuoco non voleva certo intimidire, come sarebbe stato se avesse sparato alle gambe o in aria, ma voleva chiaramente uccidere, avendo sparato ad altezza d’uomo verso organi vitali. Dunque i due imputati spararono contro il Caroppo con dolo diretto di omicidio intendendo ucciderlo. Il movente è stato chiaramente richiamato nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e normalmente non attiene ad un solo elemento, ma a più fattori convergenti che inducono a decretare la morte della vittima. Nel caso di specie vi era il proposito di incendiare il negozio della figlia di Marzo con lei dentro, e soprattutto i debiti di droga per la vicenda genovese sopra richiamata, fatti che avevano rotto gli equilibri interni tra soggetti avvezzi a risolvere i propri conflitti in modo drastico con la violenza”.



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