Se Vincent Lindon sembra fatto apposta per incarnare eroi che si battono per un mondo migliore (ed è con lui, infatti, che Stephan Brizé ha girato la sua “trilogia del lavoro”), la convocazione stavolta è scattata per Guillaume Canet «e la sua infinita malinconia». Il regista di La legge del mercato e Un altro mondo, con Le occasioni dell’amore (uscito qualche settimana fa al cinema) abbandona fabbriche, uffici e vertenze sindacali, per fare la cronaca di un amore, un “amour de jeunesse”, che si concede una seconda chance.
Guillaume Canet che, secondo un giornale francese, con questo film di fatto avrebbe accettato di girare un documentario su sé stesso, nel film è una star del cinema, sposato a una celebrity (e fin qui ci siamo, Canet è il marito di Marion Cotillard, la coppia ha due figli, Louise e Marcel, 7 e 13 anni). In burn out per crisi di mezza età o dubbi sul proprio talento, Mathieu-Guillaume abbandona senza preavviso la compagnia con cui sta provando una pièce e si rifugia in una spa di lusso in Bretagna per tirarsi un po’ su con la thalassoterapia.
In quella cittadina vive una donna, Alba Rohrwacher (e il mensile Positif descrive la coppia di attori «gli stradivari di questa musica da camera sulla fragilità della condizione umana») con cui Mathieu ha vissuto una passione d’amore 15 anni prima. Lui ha lasciato lei, entrambi si sono rifatti una vita, lei ha sposato un medico e dà lezioni di piano. Si incontrano di nuovo.
Canet che è attore e regista, con il film Ad Vitam avrebbe sarebbe stato visto da 17 milioni di spettatori in 3 giorni (dati Netflix, non verificabili) e di recente ha diretto Asterix e Obelix, film dai grandi incassi e dalle critiche feroci, questa volta ha contribuito a produrre titoli di giornale più indulgenti, come «Perché gli amori riscaldati emozionano sempre al cinema?». Se per metà del film il divo francese è in ciabatte e accappatoio, cullato da una musica d’ascensore, sollecitato a fare esercizi di respirazione da un “coach mistico”, e costretto a sottoporsi al rito del selfie tra un trattamento e l’altro, nell’altra metà ci trasporta verso il melodramma, al confronto con il passato che si riaffaccia, portato questa volta dalle note di Vincent Delerm. «Credo di aver già dimostrato, anche nei miei film, di non aver nulla contro l’idea di giocare con la mia immagine» spiega, paziente, a iO Donna.
La condanna della celebrità
Il film in effetti si potrebbe anche vedere come un prolungamento ironico-depressivo di Rock’n’roll, da lei diretto e interpretato insieme a sua moglie Marion e a suo figlio, dove interpretava un attore e regista sulla quarantina il cui ego veniva profondamente ferito da una giovane collega secondo cui «non era vecchio, ma nemmeno più rock’n’roll».
Non è molto diverso da quello che succede a Mathieu, e in più sono passati altri 7 anni… 50 anni è l’età dei bilanci, ed è anche la mia. Mathieu va a fare la thalassoterapia per distendersi, perché si è perduto nei personaggi e nel lavoro. La sua ex, quando si incontrano, vede in lui l’uomo che era e che ricorda. Che è anche l’uomo che lui vorrebbe tornare a essere. Ma il problema è che, quando sei famoso, ritrovare il tuo vero te è impossibile perché tutto quello che ti circonda ti riporta alla tua persona pubblica, a come ti vedono gli altri. Non riesci più a lasciarti andare alle tue emozioni e a essere sincero con le persone con cui sei. Perciò lui è completamente sbalestrato, perduto.
Le è capitato di sentirsi perduto nei suoi personaggi?
Sì, perché talvolta accettiamo ruoli per vivere cose che non abbiamo vissuto nelle nostre vite e che ci interessa sperimentare. Mi è successo alla fine di un film di non riuscire a separarmi dal personaggio perché era per me un portavoce e mi permetteva di liberare emozioni. E quando questo accade, qualche volta vorresti che continuasse.
Ama i selfie? Le capita che la fermino mentre vorrebbe solo passare inosservato?
Ho raccontato qualche aneddoto a Brizé che ha poi usato nel film. Spesso le persone che vogliono portare a casa l’immagine di una celebrity sono più concentrate su di sé che sull’obiettivo e capita che si dimentichino di inquadrarti, o che ti tagliano a metà. Non se ne rendono conto perché guardano solo se stessi. Ma qualcosa di me nel personaggio c’è. Il mio comportamento con le persone che mi domandano selfie o autografi al momento sbagliato: io reagisco un po’ come nel film. In maniera rispettosa, non è semplice dire di no alle persone.
C’è qualcosa di lei anche nella sensibilità che dimostra in questa storia d’amore che si rinnova tardivamente?
Io amo un’espressione che un amico ha usato con me in un momento in cui non stavo troppo bene: «Devi decidere se vuoi essere felice oppure aver ragione, non si possono avere entrambe le cose». Mathieu è un uomo che ha deciso di avere ragione, ma quando si ferma un attimo a riflettere capisce che non aveva molto senso. E non lo ha soprattutto quando sei in coppia. Certe volte ha senso dire: hai ragione tu. Mollare il colpo.
Nelle conversazioni con sua moglie nel film si ha l’impressione che ci sia una vera strategia dietro le decisioni prese («Fai quel thriller, il thriller funziona ai César»). E’ necessario essere strateghi per resistere nel vostro mondo?
No, è anzi proprio il contrario di quello che bisogna fare. Se scegli un film per ragioni strategiche, perché pensi che ti porterà ai César o agli Oscar, di sicuro non lo stai scegliendo per buone ragioni. Io penso che la bellezza e la forza di un attore e di un regista sia vivere tra un film e l’altro, nutrirsi di quello che succede quando non sei su un set e conservare quelle emozioni, tenere i piedi per terra, vivere una vita semplice. Noi riceviamo delle sceneggiature, ci sono i momenti buoni o meno buoni per fare certe cose. Stephane è venuto a propormi questo film proprio al momento giusto. Ero passato attraverso momenti della mia vita in cui mi ero rimesso in discussione, avevo dubitato di me, quindi ero pronto a interpretare un uomo in crisi. Non ho mai funzionato strategicamente. Questo mestiere non deve essere fatto con la testa, ma con il cuore.
C’è una frase che Alba dice alla fine del film, semplice, ma rivelatoria: «Nella vita ci sono persone come te e persone come me». Allude al desiderio di riuscire, di uscire dai confini di una vita semplice e forse considerata mediocre. Come è stato per lei diventare la persona che è adesso?
Io credo molto all’anima. E al fatto che quando uno nasce e poi cresce ha una missione nella vita e che io da quando sono piccolo ho bisogno di esprimere le cose, scrivendo o dirigendo, o anche come attore. E’ un bisogno viscerale, non potrei vivere se non lo facessi, è vitale, necessario. E poi non so fare nient’altro. Sperando che duri…
Per Brizé l’attore è il mestiere più importante del mondo, perché a differenza del musicista che lavora con uno strumento, l’attore ha solo sé stesso e questo richiede molto coraggio.
Il nostro strumento evolve, può degradare, perfezionare o annientarsi completamente: la vita le cose che attraversiamo ci possono distruggere oppure migliorarci. Mi commuove vedere attori e attrici che attraversano esperienze nella loro vite e poi vederli sullo schermo e servirsi di quello che hanno vissuto per raccontare una storia.
Per esempio?
E’ interessante vedere come si accetta di invecchiare. Soprattutto le attrici. Ho visto attrici che hanno un problema con la propria immagine, intuisci la ricerca di modi per essere sempre giovani e poi finalmente le vedi in un film in cui hanno accettato di vedersi per quello che sono, con la loro età esposta senza filtri. E’ toccante perché è una sorta di liberazione, smettere di nascondersi dietro maquillage o chirurgia. Ricordo una grande attrice degli anni ‘60 che non aveva più fatto film, solo teatro, per lungo tempo. Un regista le propone di fare un film, lei accetta a condizione che la direzione della fotografia sia affidata a un grande: Henri Alekan (lavorò dagli anni ’30 ai ’90 con alcuni grandi registi, da Jean Cocteau a William Wyler, da Wim Wenders ad Abel Gance, ndr) . Fanno il film e la sera della prima lei è in sala, passa sullo schermo il suo primo piano, e lei si vede per la prima volta com’è, invecchiata. Si volta verso Alekan e gli chiede: «Ma allora, Henri, che cosa è successo?». E lui le risponde: «Sono invecchiato, madame».
Guillaume Canet e il rapporto con il teatro
Che effetto le fa rivedersi sui giornali o nei film?
Non mi rivedo, detesto rivedermi. A casa tutti sanno che non devono circolare giornali, i miei amici sanno che se vedono qualcosa che mi riguarda su un giornale, bello o brutto, se lo devono tenere per loro. Non ne voglio sapere niente. Faccio fatica a vedermi, e anche ad ascoltarmi, mi sembra di avere una voce da papera.
Il rapporto col teatro per gli attori di cinema è complesso. Lei lavora anche in palcoscenico, il suo protagonista non accetta la sfida e sfugge. Il film gioca un po’ sul senso di inferiorità del teatro rispetto al cinema.
Non ho mai sentito un sentimento di inferiorità, ho adorato fare teatro e mi manca molto. Il mio padre spirituale, Jean Rochefort, mi diceva: «Aspetta a fare teatro di essere vecchio e grasso, fai il cinema finché hai una bella pelle». Ho seguito il suo consiglio. Ma è vero che il teatro terrorizza, e che c’è in gioco un’adrenalina completamente diversa. Non vai a dormire fino alle 3 o alle 4 del mattino perché sei carico dell’energia che ti ha passato il pubblico, poi dormi fino al pomeriggio, i ritmi si sballano. E’ una vita a parte, non puoi più avere a che fare con la gente che vive normalmente, magari con dei figli. Quando sarò più vecchio e i ragazzi saranno cresciuti credo che farò teatro, ma prenderò un monolocale tranquillo per poter dormire a lungo.
Dopo un film enorme come Asterix e Obelix vuole fare cose diverse?
Ah sì, va bene farne uno di quelle dimensioni. Ma non di più. Ora torno al thriller, un genere che mi eccita molto, e solo come regista (il film, Karma, inizierà le riprese a fine febbraio, protagonista Marion Cotillard, ndr). La tradizione del “polar” francese sulla carta è esportabile. Però di Non dirlo a nessuno (2006) Ben Affleck aveva preso i diritti per il remake americano, ma non è finita bene.
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