Negli ultimi mesi, lo scandalo cosiddetto “Bibileaks” ha scatenato un certo putiferio in Israele: il portavoce del premier Benjamin Netanyahu ha trafugato carte segrete per passare ai media (false) informazioni su Hamas. Ora rischia quindi 15 anni e tutti si chiedono: Bibi sapeva? In Occidente, intanto, la vicenda coinvolge importanti testate mediatiche internazionali, mettendo in luce un preoccupante schema di complicità giornalistica nella propaganda israeliana, in particolare in Germania, dove il più grande quotidiano del paese, Bild, ha svolto un ruolo centrale.
Lo scandalo è iniziato a settembre, quando Bild ha pubblicato un report “esclusivo” che affermava di rivelare un documento segreto di Hamas in cui si delineava la strategia del gruppo nei negoziati di cessate il fuoco con Israele. Secondo Bild, il documento, presumibilmente trovato sul computer del leader di Hamas, Yahya Sinwar, dimostrava che Hamas stava deliberatamente prolungando la guerra e portava la piena responsabilità per il blocco dei negoziati. Il report, che si allineava perfettamente alla narrazione del governo di estrema destra di Netanyahu, è stato pubblicato mentre in Europa e in Israele si moltiplicavano le proteste che chiedevano un cessate il fuoco.
Tuttavia, la storia si è rapidamente sciolta come neve al sole. Fonti militari israeliane hanno rivelato che il documento era stato scoperto mesi prima, redatto da un funzionario di medio livello di Hamas, e non c’erano prove che fosse stato adottato come policy dal gruppo islamista radicale. Ancora più grave, la frase chiave citata da Bild – che affermava che Hamas cercava di prolungare i negoziati – era completamente inventata. Nonostante questa scoperta, Bild si è rifiutato di correggere o ritrattare la storia.
La posizione pro-Israele di Bild non è una novità, anzi, è un pilastro del quadro ideologico del suo editore Axel Springer, sancito nei contratti di lavoro delle sue testate tedesche. Tre anni fa l’amministratore delegato della società ha fatto issare una bandiera israeliana presso la sua sede di Berlino durante gli 11 giorni di violenze tra l’esercito israeliano e Hamas a maggio (248 palestinesi, tra cui 66 bambini, a Gaza, e 13 persone in Israele, tra cui due bambini) dicendo ai dipendenti contrari di cercarsi un altro lavoro. Negli ultimi dodici mesi questa posizione è diventata così esplicita da sfiorare il grottesco, rivelando peraltro una importante manipolazione di informazioni militari segrete per influenzare l’opinione pubblica.
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Lo scandalo è esploso in tutta la sua gravità quando è venuto fuori che il documento era stato manipolato da un assistente di Netanyahu e passato a Bild e ad altre testate straniere. Un aspetto interessante: questo canale di disinformazione sarebbe stata progettato bypassare la stampa israeliana: il cerchio magico di Netanyahu probabilmente si fidava di più dei lacché europei che dei cani da guardia di casa propria. In Inghilterra, era stato coinvolto uno dei più antichi quotidiani della comunità ebraica locale, il Jewish Chronicle, finito così a destra negli ultimi tempi dal pubblicare poco dopo il 7 ottobre un intervento del filosofo conservatore Douglas Murray che spiegava come Hamas fosse peggio del Terzo Reich, perché almeno i nazisti si vergognavano dei loro gesti e non se ne vantavano in pubblico.
Se il Chronicle è stato sommerso dalle critiche e diverse ebrei democratici hanno disdetto il loro abbonamento, la Germania è rimasta in gran parte in silenzio di fronte alla disonestà del suo tabloid. Il vice caporedattore di Bild, Paul Ronzheimer, che ha co-redatto il report, è stato premiato a novembre con un prestigioso premio giornalistico. Bild continua tuttora a esercitare un’enorme influenza sull’opinione pubblica tedesca e a plasmare il suo ecosistema politico, oscurando il costo umano della guerra a Gaza.
Lo scandalo “Bibileaks” non è dunque un incidente isolato, ma parte del razzismo anti-palestinese che domina il panorama mediatico tedesco, influenzato dal passato storico della Germania e da un frainteso concetto di Staatsräson (ragion di Stato), riassunto nelle dichiarazioni del premier Olaf Scholz o della ministra degli Esteri, Annalena Baerbock, tutte appiattite sulla narrazione israeliana. Dopo gli eventi del 7 ottobre 2023, i media tedeschi hanno abbracciato lo squilibrio più estremo, favorendo la giustificazione perpetua della rappresaglia di Netanyahu, utilizzando una copertura emotiva e disonesta dei fatti, e marginalizzando la prospettiva palestinese.
Non solo nelle redazioni, ma anche negli spazi culturali: la libertà di stampa e di espressione proclamata dalla Germania è stata fatta a pezzi dell’esclusione di voci critiche verso Israele, come accademici o giornalisti che sostengono i diritti dei palestinesi (ad esempio, Judith Butler, Yanis Varoufakis e Mohammed El-Kurd), spesso esclusi da eventi o premi per le loro posizioni politiche. maggio, la polizia antisommossa ha smantellato un accampamento di studenti pro-Palestina alla Free University di Berlino, dopo la campagna diffamatoria di Bild contro gli accademici che avevano firmato una lettera aperta che chiedeva il dialogo.
L’associazione tra antisemitismo e critica a Israele, tra giudaismo come fede e sionismo come ideologia politica, adottata dal governo tedesco, occulta il fatto che la maggior parte degli incidenti antisemiti in Germania provenga da ambienti di estrema destra e non da gruppi islamici. Alimenta sentimenti anti-palestinesi e un inquietante conformismo. Nel frattempo, Bild ha formalizzato un’alleanza con Israel Hayom, un quotidiano israeliano filo-Netanyahu, consolidando ulteriormente il suo ruolo come portavoce della propaganda del governo israeliano. Se c’è un Paese che forse meriterebbe una campagna di boicottaggio a livello europeo, e uno scrutinio sui propri media al pari di quello affibiato ai media russi, è la Germania.
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