Tra l’Europa e le grandi civiltà mature di Cina e India si estende per circa cinquemila chilometri una regione dominata da altipiani rocciosi e desertici, dove le piogge sono relativamente scarse, le frontiere contese, l’unità politica è raramente esistita e dove, secondo lo storico di Princeton Bernard Lewis, non c’è mai stato un modello storicamente definito di autorità. La generalizzazione di Lewis è certamente imprecisa, perché Egitto e Iran, così come Iraq e Turchia, sono stati governati da civiltà mature per migliaia di anni. In ogni caso, l’aridità, la grande varietà e la confusione politica tipiche dei territori tra il Mediterraneo e la Cina meritano un’attenta disamina.
Questo paesaggio austero rappresenta la «Terra dell’Insolenza», dichiarò a metà del xx secolo l’antropologo americano Carleton S. Coon, riferendosi alla natura ribelle della politica mediorientale moderna, con la sua tradizione di orgoglio e indipendenza unita al tribalismo e alle tensioni etniche e settarie. La fraseologia di Coon è particolarmente pittoresca e deterministica, soprattutto perché il tribalismo ha mantenuto la pace all’interno di grandi gruppi e, per altri versi, considerato nel suo complesso, non è il fattore dissolutivo che l’Occidente crede che sia. La definizione di Coon ha tuttavia un’innegabile risonanza, a causa del livello indubbiamente alto di violenza e instabilità politica che caratterizza questa immensa regione rispetto ad altri luoghi del mondo. Negli ultimi decenni, ad esempio, una parte consistente della popolazione del mondo arabo ha sperimentato una violenta condizione di anarchia e, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, nella seconda decade del secolo gli arabi, sebbene rappresentino appena il cinque per cento dell’umanità, hanno originato il cinquantotto per cento dei rifugiati a livello mondiale e il sessantotto per cento di tutti i «decessi legati alle guerre»..
In effetti, la maturazione dai regni medievali confluiti nei primi Stati moderni e quindi nei moderni Stati democratici, come avvenuto in Europa, o quella dell’incessante, millenaria successione di imperi dinastici in Cina e nel subcontinente indiano – luoghi con paesaggi lussureggianti e più abitabili –, non si verificano nella stessa misura in quel vasto e infecondo campo di battaglia tra culture e civiltà diverse che corre lungo la fascia meridionale del Rimland eurasiatico, troppo spesso diviso anziché unito da un’unica religione. Non dimentichiamo, inoltre, che la tragedia del Grande Medio Oriente, dal collasso dell’impero ottomano in poi, ha a che fare tanto con l’interazione dinamica dell’Occidente quanto con la geografia regionale, come vedremo più avanti. Prima, però, vanno affrontati alcuni aspetti cruciali.
Il tema dell’autorità politica, chi controlla chi, rimane spesso irrisolto in tutto il Medio Oriente. L’islam, divulgato dal profeta Maometto, un commerciante vissuto nel ricco crocevia cosmopolita della Mecca all’inizio del v secolo d.C., era incentrato sull’etica e su come condurre una vita pura e giusta di fronte alle impegnative limitazioni di un paesaggio desertico, dove l’ambiente era insidioso e di conseguenza gli spostamenti difficili. In quel contesto, l’aridità aveva creato oasi che fungevano da veri e propri «punti di raccordo» attraverso il deserto, stimolando gli scambi e i commerci, e l’islam rappresentava pertanto una manna che alimentava l’onestà nelle trattative.
Sebbene offrisse uno stile di vita completo, capace di abbracciare molte civiltà e, nei secoli, di rendere soddisfatte della propria esistenza milioni di persone indigenti, la nuova religione, e Coon fu uno dei primi a notarlo dall’esterno, non lasciava disposizioni solide per l’autorità politica temporale. Mentre le altre religioni, come il cristianesimo, non cercavano il controllo sulla politica e si limitavano in genere a un credo privato, l’Islam offriva uno stile di vita onnicomprensivo. Olivier Roy, accademico e politologo francese, scrive che «l’islam nasce come setta e come società», ma senza un’istituzione né tantomeno un clero che la organizzi. Maxime Rodinson, grande linguista e area specialist della Sorbona, sosteneva infatti che l’islam «non [fosse] solo un’associazione di credenti», ma una «società totale». E proprio in quanto società totale, comprendente il mondo fino ad allora laico, l’islam aveva bisogno di una filosofia dell’organizzazione politica, che spesso, secondo Roy, mancava del tutto. Poiché Maometto offriva un’interpretazione dell’esistenza inedita e più pura che sostituiva il contratto sociale esistente, era naturale che incontrasse qualche opposizione.
A causa delle ostilità verso il nuovo credo, lui e i suoi seguaci lasciarono la Mecca e fuggirono a nord verso Yathrib (Medina, «La Città»), dove in sostanza fondarono una nuova comunità. Non a caso, il calendario islamico non parte dalla nascita di Maometto né dall’inizio della sua rivelazione, ma dall’anno di questa migrazione, la cosiddetta «egira». Questa nuova comunità era a tutti gli effetti rivoluzionaria e nel mondo arabo e islamico avrebbe pertanto generato, nel corso dei secoli e dei millenni, scontri dinastici e altri rivolgimenti relativi al settarismo, all’ambizione, alla legittimazione e alla purezza. L’ascesa e il declino degli imperi dinastici in Medio Oriente, e i drammi politici consumatisi al loro interno, avevano spesso a che fare con la commistione di religione e politica. Sayyid Qutb, intellettuale egiziano e leader della Fratellanza musulmana, sfruttò questa argomentazione per attaccare il sistema impuro e infedele (kafir) di Gamal Abdel Nasser, che perciò lo fece impiccare nel 1966.
Le infinite lotte e contese per l’autorità e la leadership religiosa dell’islam iniziarono dopo soli cinquant’anni dalla sua fondazione, coinvolgendo sunniti, ibaditi, sciiti e le varie ramificazioni dello sciismo, fra cui zaiditi, ismailiti, alawiti, drusi, ognuno dei quali aveva teorie diverse sul governo spirituale, in un modo non così dissimile dal cristianesimo*. Ottenere una legittimazione politica era pertanto molto difficile. Tutto ciò era vero non solo a livello statale, ma anche delle città e delle tribù, e all’interno delle stesse tribù, tanto che più di un luogo si ritrovò diviso tra «i Montecchi e i Capuleti arabi», nelle parole dell’arabista Tim Mackintosh Smith.
Soprattutto dopo la Prima guerra mondiale, con il disfacimento dell’impero ottomano – che aveva guidato il mondo islamico in Medio Oriente per almeno mezzo millennio –, lotte sanguinose per l’acquisizione del potere portarono a una disputa su chi potesse vantare la dottrina più pura e talvolta, per estensione, la più estrema, altra tendenza che presenta affinità con il cristianesimo medievale. Ne seguirono la rivoluzione iraniana del 1978-1979, le varie ramificazioni del salafismo e in particolare l’Isis, che hanno generato violenze granguignolesche e spaventosi titoli in prima pagina con i quali abbiamo acquisito una triste familiarità.
Questo è dunque il Grande Medio Oriente, che in senso lato è il mondo islamico del deserto e delle pianure (rispetto al mondo islamico marittimo dell’Oceano Indiano): una vasta striscia di terra che negli ultimi cinquant’anni ho esplorato e studiato e che dal Marocco, nel Mediterraneo occidentale, arriva al Turkestan orientale, vicino alla culla fertile della Cina; oppure, da un’altra prospettiva, dai Balcani ortodossi orientali verso sud fino alla montuosa terra monsonica dello Yemen; o, infine, da un ulteriore punto di vista, dall’anarchia violenta della Libia a quella dell’Afghanistan. Si tratta di un territorio che i greci chiamavano oikoumene, ovvero la parte abitata del globo che conoscevano in via diretta o indiretta. Più che un termine geografico, l’oikoumene rappresentava un’idea, un concetto molto più ampio rispetto alla regione arida del mondo arabo, che includeva Etiopia, Turchia, Iran, Afghanistan, Caucaso e Asia centrale, un’area caratterizzata da un grado d’interconnessione tale da rappresentare una forma primitiva di globalizzazione. È la stessa mappa percorsa in gran parte da Erodoto e Alessandro Magno. Spesso sono le regioni più antiche e ricche di storia ad aver fornito le coordinate per i peggiori orrori moderni.
Prendiamo Palmira, ad esempio. Nei miei ricordi di decenni fa, rimangono le sue snelle colonne corinzie a punteggiare l’orizzontalità del deserto siriano. Laggiù, la «regina d’Oriente», Zenobia, figura ben più consistente di Cleopatra, fu infine soggiogata dall’imperatore romano Aureliano nel 272 d.C. Un anno dopo Aureliano bruciò la città. Palmira è stata nuovamente sottomessa e gran parte del suo prezioso patrimonio archeologico mutilato e distrutto dall’I tra il 2015 e il 2017. Parliamo di un crimine sconvolgente contro oggetti sacri del passato, che conferma la violenza nichilista del gruppo contro gli esseri umani.
Quale direzione prenderà il corso delle cose? Quali dimensioni politiche assumerà questa vasta regione che occupa gran parte della fascia subtropicale tra l’Europa e l’Estremo Oriente? Riuscirà a tirarsi fuori da decenni di instabilità e malgoverno e a trovare un compromesso risolutivo tra la tirannia da un lato e l’anarchia dall’altro? Le risposte partono da una prospettiva che si confronta con l’abisso dei decenni e dei secoli. Per esplorare questa distanza così lontana dalla portata della comprensione umana, insieme ad altre questioni, è necessario ricorrere all’aiuto non solo di esperti contemporanei, ma anche di scrittori ritenuti ormai da tempo superati. Sebbene i valori di questi autori del passato possano non essere all’altezza dei nostri, la loro genialità è innegabile, ed è il motivo per cui le loro opere sono state reputate dei classici. Occorre pertanto avvicinarsi con umiltà alle precedenti epoche del pensiero che, per quanto imperfette, fondano le basi della nostra.
Tratto da “Il Grande Medio Oriente: Viaggio al centro della storia tra impero e anarchia”, di Robert D. Kaplan, Marsilio, pagine 448, 24 euro
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link