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Alla fine dell’inverno anomalo dello scorso anno, dopo quasi dieci mesi senza pioggia, i cunnutti dell’orto botanico di Palermo iniziarono a riempirsi di acqua prelevata dai pozzi. Cunnutti è il nome tradizionale dei canali di terra che corrono nella parte più antica dell’orto aperto più di 200 anni fa, nel 1789, ora gestito dall’università. Nessuno, né i giardinieri né i ricercatori, ricordava di aver mai irrigato così presto. Era l’unico modo per salvare molti alberi secolari che stavano iniziando a soffrire. Fu una decisione estrema, come estrema era quella siccità.
Il clima di Palermo è sempre stato perfetto per la crescita di piante e alberi di ogni specie. «L’aria è dolce, mite, profumata; il vento tiepido», scrisse all’inizio dell’Ottocento lo scrittore tedesco Wolfgang Goethe nel suo Viaggio in Italia dopo aver visitato villa Giulia, uno dei parchi storici della città, proprio accanto all’orto botanico. La natura riesce a farsi largo come può anche nel resto della città densa di palazzoni, eredità del cosiddetto Sacco di Palermo, la spasmodica espansione edilizia avvenuta tra gli anni Cinquanta e Sessanta: dai balconi nei quartieri del centro spuntano cactus e piante succulente di ogni varietà, ai lati delle strade le radici di oleandri e ficus contendono il suolo all’asfalto.
A Palermo le piante non faticano a crescere, ma la mancanza d’acqua si fa sentire. È un bene prezioso da secoli e da alcuni anni lo è ancora di più perché ce n’è molta meno. I lunghi periodi di siccità sono più frequenti e le pessime condizioni della rete idrica portano a disperdere le poche scorte accumulate durante le piogge. I bacini artificiali siciliani sono quasi vuoti per la maggior parte dell’anno. Nei quartieri della periferia la fornitura di acqua è precaria, va e viene, oppure viene razionata direttamente dall’AMAP, l’azienda pubblica che si occupa di gestire e mantenere la rete idrica.
Al di sotto dell’orto botanico l’acqua scorre nella falda a una profondità di sette metri, raggiunta dai pozzi che la prelevano per utilizzarla nel periodo delle irrigazioni estive, quando le piante e gli alberi ne hanno più bisogno. Ognuna delle 12mila specie cresciute in oltre 200 anni ha diversi segnali per manifestare la sete: alcune piegano le foglie, altre cambiano colore, si afflosciano o si seccano.
I giardinieri sanno quando è il momento giusto per iniziare a bagnare. Non basta aprire un rubinetto. Nella parte più antica dell’orto botanico, chiamata sistema di Linneo (dal naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus, italianizzato in Linneo), la complessa rete di irrigazione risale al Settecento. Da allora generazioni di giardinieri e ricercatori si tramandano istruzioni e accorgimenti per farla funzionare al meglio.
In realtà questo sistema di irrigazione ha origini ancora più antiche perché fu introdotto durante la dominazione araba, prima dell’anno Mille. Per secoli è stato utilizzato negli agrumeti della Conca d’oro, la fertile pianura di Palermo tra i monti e il mar Tirreno.
Gli arabi per crearla copiarono e migliorarono una tecnologia utilizzata già dai persiani per estrarre l’acqua dalle falde, portarla in superficie e distribuirla attraverso chiuse e canali, sfruttando solo la gravità. Il modello erano gli àgdal, i giardini dalle forme simmetriche realizzati in posizione panoramica e chiusi da mura. Tra i più conosciuti ci sono i giardini iraniani di Kashan, Isfahan e Shiraz, l’Alhambra di Granada, in Spagna e l’Agdal di Marrakech, in Marocco.
Il sistema di Linneo dell’orto botanico di Palermo è formato da quattro aree chiamate quartini, a loro volta suddivise in 23 aiuole rettangolari – gli ortuli – con all’interno collezioni di piante distribuite per varietà secondo appunto la nomenclatura teorizzata da Linneo, basata sui caratteri sessuali dei fiori. Nell’Ottocento nei quartini furono censite 1.548 specie, ora sono molte meno perché nel frattempo gli alberi sono cresciuti occupando spazio e portando ombra, non le condizioni ottimali per la crescita di piccole piante e arbusti.
Camminando tra gli ortuli è facile vedere gli elementi principali dell’antica rete di irrigazione: canali di terracotta, pozzetti, vasche, cumuli di terra a formare tracce che si diramano lungo tutta l’area interna, dove crescono le piante.
Ognuno ha un nome tradizionale. L’acqua prelevata dal pozzo viene accumulata in vasche, le gebbie (dall’arabo gabiyah o jabia, cisterna), poi immessa nei risittaculi (dal latino receptacùlum, serbatoio), pozzetti più piccoli in tufo e malta di calce, e infine ripartita attraverso le saie (dall’arabo sàqiya, ruscello), condotte di tufo sigillate con malta di calce e mattoni di terracotta, e i catusi (dall’arabo qàdùs, condotto) dal diametro tra i 15 e i 20 centimetri, fatti di terracotta. Tutti questi manufatti – comprese alcune vasche dove crescono ninfee e piante acquatiche – sono stati ristrutturati di recente grazie ai fondi del PNRR, il piano di riforme e investimenti finanziato coi fondi europei.
Pur ingegnoso, questo sistema di irrigazione non fa tutto da solo. Il terreno deve essere preparato per la distribuzione dell’acqua, molto più complessa e lenta rispetto all’irrigazione moderna: all’orto botanico di Palermo serve più di una settimana per raggiungere tutte le piante. In primavera i giardinieri lavorano all’interno dei quartini per creare canali e argini a sezione triangolare zappando e spostando la terra fino a creare una rete di distribuzione. Quando l’acqua inizia a scorrere la “guidano” verso il punto desiderato attraverso piccoli tumuli chiamati wattali e i già citati cunnutti, il nome dei canali di terra, aperti o chiusi alla bisogna con la zappa. È una sorta di labirinto governato dai giardinieri.
«Certo, potremmo utilizzare un sistema moderno di irrigazione a goccia, con i tubi di plastica in tutto l’orto, ma vuole mettere il fascino? Se non tramandiamo noi questo sapere, lo perderemmo nel giro di poco. Ormai nelle campagne si è già quasi perso», dice il direttore dell’orto botanico, Rosario Schicchi, mentre sistema con cura il bordo in terracotta di un ortulo. «L’impianto moderno l’abbiamo nella parte più recente». Schicchi dice però che non è la stessa cosa, e non solo per la tradizione: quando le piante del sistema di Linneo vengono irrigate con il sistema a scorrimento superficiale risultano “sazie”, per usare una parola cara ai giardinieri. In compenso non viene utilizzata molta più acqua rispetto all’irrigazione a goccia.
Sfruttare l’acqua nel modo corretto è essenziale per contrastare le conseguenze degli eventi estremi dovuti ai cambiamenti climatici. Negli ultimi dieci anni a Palermo sono aumentati i picchi di temperatura e soprattutto di notte si è alzata quella media. A fine gennaio tra i viali e le serre dell’orto passeggiavano turisti in maglietta. Negli ultimi due anni quegli stessi viali hanno iniziato a coprirsi di foglie anche in primavera e in estate, quando dovrebbero rimanere salde sui rami. Questa anomalia è dovuta allo squilibrio idrico: le piante e gli alberi perdono le foglie per ridurre la traspirazione e bilanciare l’assorbimento di acqua.
L’estate si è allungata e sono stati raggiunti picchi di temperatura elevati. Due anni fa a Palermo c’era così caldo che le piante non avevano il tempo di rifornire le foglie di acqua a causa dell’elevata velocità di traspirazione. Alcuni alberi come le querce non sono riusciti a sopportare il gran caldo e sono morti. Una delle piante più anziane dell’orto botanico, la melaleuca originaria dell’Australia, ha iniziato a disseccare, ma ha resistito. Alla fine dell’estate i giardinieri hanno tolto le parti irrecuperabili e sono spuntati nuovi rami. «È una pianta abituata a crescere nelle aree sabbiose dell’Australia, in condizioni di temperature elevate, ma ha fatto molta fatica a superare quell’estate», dice Schicchi. «Purtroppo ci troviamo sempre più a fare i conti con queste condizioni».
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