Due settimane prima che un aereo di Stato riportasse in Libia il generale Almasri – inseguito da un mandato d’arresto della Corte penale internazionale – un analogo velivolo riportava in Italia la giornalista italiana Cecilia Sala, arrestata in Iran. Pochi giorni dopo è volato libero a Teheran anche Mohammad Abedini, ingegnere arrestato a Milano a metà dicembre su ordine dell’FBI. Tutti sono stati liberati sulla base di decisioni politiche – protagonisti il governo italiano, quello iraniano e l’amministrazione Usa – che sono andate a correggere decisioni giudiziarie. Al contrario, nel luglio 2019, fu la magistratura italiana a rilasciare senza indagini – facendola subito rientrare in Germania – la “capitana” Carola Rackete, che aveva violato l’ordine del governo italiano di non oltrepassare i confini marittimi (italiani ed europei esterni) e si era resa protagonista dello speronamento di una motovedetta militare nel porto di Lampedusa. Non si ricordano polveroni mediatici, semmai un umore di fondo compiaciuto per l’affermazione elementare del potere giudiziario su quello esecutivo (esercitato dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini).
Nessun polverone – semmai un sollievo generalizzato, unito all’apprezzamento per l’azione della premier – nemmeno per quella che si potrebbe definire “operazione diplomatica speciale” congegnata per far uscire dal carcere di Evin la giovane collega del Foglio e di Chora Media, poi subito corsa a raccontare la sua vicenda a Che tempo che fa. Ciò dopo che la premier era stata impegnata in un lunghissimo volo di Stato transatlantico anche per proteggere la sicurezza e libertà di una sola concittadina (è parso di capire non una sua elettrice).
Il contesto in cui è maturato poco dopo il caso Almasri è stato comunque lo stesso: quello di una diplomazia straordinaria da tempi di guerra, in cui il primato anti-politico conquistato dalla magistratura (quella italiana come quella statunitense) in decenni di politically correctness si ritrova naturalmente minacciato dal ritorno dell’azione di governo. Alla Casa Bianca è stato eletto un inquisito per reati disparati, nel mirino di magistrati per loro natura politicizzati e nel caso specifico frequentemente ispirati dal radicalismo woke.
Lunedì, ad Auschwitz, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – “capo” della magistratura italiana – ha rischiato di incrociare il premier israeliano Bibi Netanyahu: lui pure inseguito, come Almasri, da un mandato d’arresto della CPI per presunti crimini di guerra. Alla Giornata della Memoria nel luogo simbolo dell’Olocausto c’era comunque un ministro del governo israeliano: questo anche sulla base delle “garanzie” preventive di immunità contro la CPI fornite dal premier polacco Donald Tusk (un esponente del Ppe, vicino alla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen). Lo stesso Netanyahu, nel frattempo, è atteso a giorni a Washington, dove peraltro la CPI non ha giurisdizione.
Il contesto non fu diverso quando nel 2003 l’imam Abu Omar fu rapito a Milano, si afferma ormai scontatamente da agenti della CIA, mentre era indagato dalla Procura di Milano per sospetti rischi di fondamentalismo islamico. Il successivo governo Prodi oppose il segreto di Stato sulla vicenda. Di quell’esecutivo faceva parte – come sottosegretario alla Giustizia – Luigi Li Gotti: l’autore della denuncia per favoreggiamento e peculato sul caso Al Almasri, che ha spinto la Procura di Roma a iscrivere al registro indagati la premier, i due ministri-chiave per la sicurezza nazionale e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con la delega ai servizi d’intelligence. Questo, fra l’altro, all’indomani di un rimpasto ai vertici di DIS, AISE e AISI, seguito alle dimissioni polemiche di Elisabetta Belloni dalla direzione del DIS, a cavallo del caso Sala.
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