La parte più gustosa dello spettacolo inscenato da Giorgia Meloni, affacciata al balcone della Piazza Venezia digitale per arringare con scandalizzato fervore i suoi seguaci, è stata quella in cui è riuscita a fare fessa mezza Italia, e forse pure di più, con un castello di balle di diritto e di fatto di illusionistica perfezione.
Non era vero che avesse ricevuto un avviso di garanzia; non era vera la qualifica di politico di sinistra affibbiata all’ex camerata manipulitista Luigi Li Gotti; non era vero che la Corte Penale Internazionale avesse aspettato dopo mesi di riflessioni l’ingresso in Italia di Almasri per spiccare un mandato d’arresto a suo carico; non era vero che la richiesta della Corte dell’Aja non fosse stata trasmessa al ministro della Giustizia Carlo Nordio; non era vero che la Corte d’Appello avesse scarcerato il galantuomo libico per questo sciagurato errore; non era infine vero che il ministro Matteo Piantedosi avesse deciso di espellerlo per ragioni di sicurezza nazionale.
Non era, insomma, vero nulla, anche se suonava tutto perfetto e tutto sembrava tornare, anche il complotto dei giudici della Corte internazionale, per inguaiare l’Italia e salvare l’Inghilterra e la Germania. L’iniziativa giudiziaria del vecchio dipietrista, per ripulire in Tribunale, secondo le tradizioni della casa, gli affari sporchi della politica – anche quegli affari sporchi, che hanno, come in questo caso, a che fare con la ragione di Stato – ha offerto alla presidente del Consiglio un assist fenomenale per buttarla in caciara.
Rimane il fatto, indubitabile: sul caso Almasri, Giorgia Meloni e tutti i suoi ministri, dal primo minuto fino alla sceneggiata di martedì, hanno solo mentito. Sempre e su tutto. Il che non è affatto una ragione per chiedere ai giudici di sbrogliare la faccenda, ma per domandarsi molto seriamente come costoro possano gestire la ragione di Stato e quanto credito sincero possano prestare al governo quelli che ancora si illudono che possa difendere un’idea civile del diritto contro un’idea barbara della giustizia.
E, a proposito di diritto e di ragione di Stato, varrebbe la pena riflettere anche su due aspetti laterali di questa vicenda – che siano considerati laterali dà la misura del baratro di brutalità e malafede in cui l’Italia è precipitata – rappresentati dalla rivendicazione di una immunità penale non solo insindacabile, ma neppure discutibile per qualunque cosiddetto reato ministeriale e dalla trasformazione della ragione di Stato in una sorta di gigantesco “Me ne frego”, che non solo giustifica e scrimina una condotta potenzialmente criminale, ma cancella ogni divisione e limitazione dei poteri.
Sostenere che la contestazione di un reato ministeriale, compiuto cioè da un membro del Governo nell’esercizio delle proprie funzioni, corrisponda all’usurpazione togata di una responsabilità politica è una vera e propria scemenza, proprio perché la disciplina in materia stabilisce una indiscutibile prevalenza della decisione politica su qualunque azione giudiziaria.
La legge costituzionale 16 gennaio 1989 numero 1 e la legge 5 giugno 1989 numero 219 non solo prevedono che in questi procedimenti il ruolo del pubblico ministero sia svolto da un magistrato collegiale ad hoc (il tribunale dei ministri), ma che per mandare a giudizio il capo del governo o un ministro sia comunque necessaria l’autorizzazione del Parlamento, che può essere negata, anche qualora si ritenesse il reato sussistente, nel caso in cui «l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo» (articolo 9 della legge costituzionale 1/1989).
Che senso ha invocare la ragione di Stato contro le inchieste giudiziarie, quando il filtro della ragione di Stato è stato posto, dalla Costituzione e dalla legge, a valle della fase istruttoria, proprio perché la ragione di Stato implica una assunzione di responsabilità politica del Parlamento, non l’intoccabilità del Governo?
È assolutamente sano che non siano un pm o un giudice, ma le camere a stabilire se esista una ragione di interesse nazionale nella plateale violazione dell’obbligo di cooperazione con la Corte dell’Aja da parte del Governo italiano (anche qualora questa condotta integrasse un reato), ma è assolutamente malato pensare che porre il problema della natura potenzialmente illecita degli atti di governo sia un crimine di lesa maestà.
Se la parte più godibile della sceneggiata tripolitana è stata nella sfrontatezza di Meloni, quella più desolante è stata nell’acribia dei giuristi di corte e a tassametro che si affollano normalmente dal lato del potere – non solo di destra – e che anche in questo caso sono corsi in soccorso del vincitore, cavillando sulla natura dovuta o voluta della comunicazione a Meloni e del passaggio degli atti al tribunale dei ministri da parte della Procura di Roma, malgrado la legge dica esplicitamente che, accertata la natura ministeriale del reato contestato, “omessa ogni indagine, entro il termine di quindici giorni, trasmette con le sue richieste gli atti relativi al collegio”, cioè al tribunale dei Ministri (articolo 6, comma 2, della legge costituzionale 1/1989).
Secondo questi geni, la Procura di Roma, omessa ogni indagine, avrebbe potuto cestinare la denuncia non dichiarando sussistente la ragione di Stato – che come detto non tocca alla Procura valutare – ma insussistente qualunque profilo illecito nella scelta di portare in salvo in Libia un uomo accusato di crimini gravissimi? Il tutto, ripetiamo per l’ennesima volta: “omessa ogni indagine” e dando un’occhiata alle carte? E questo facilismo sciuè sciuè sarebbe il viatico per la giustizia giusta?
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