«Chef Vissani e quel vino folle per Costanzo»

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Un francofilo (ma chi non lo è quando si parla di vino) come Claudio Velardi non può che essere abbinato a una bottiglia francese, anzi due. Quindi per una volta faremo eccezione alla regola di scegliere quasi esclusivamente vini italiani e ci concederemo questa trasgressione. Politologo, abile comunicatore, capace di giudizi moderati ma anche tranchant, uomo di passioni ma anche di rapidi innamoramenti e distacchi, il giornalista e saggista napoletan romano, oggi direttore del Riformista, ricorda uno dei vini più sorprendenti che si possa avere la fortuna di bere: il Riesling. Un nettare con spiccata personalità, unico per profumi, aromi e gusto, che ti resta impresso perché capace di fissarsi nella memoria e di cui puoi gustare anche un bicchiere in più per la bassa gradazione alcolica (che in certi casi, come per il Riesling Dr Loosen, può essere di appena 8-9 gradi). Ma poiché anche Velardi riesce, per il saper fare marketing, a restare impresso nella mente dei suoi interlocutori, ci ricorda il principe dei Riesling, ovvero quello prodotto nella Moselle, regione francese che confina a nord-est con la Germania. L’altra bottiglia che ha caratteristiche in comune con Velardi, e che è una delle passioni enologiche del giornalista, curioso e provocatore, è lo Chablis. Siamo in Borgogna, dove viene plasmato un nettare con una spiccata freschezza ma anche elegante, morbido, da abbinare a delicati piatti di mare come capesante, ostriche e crostacei. Uno Chardonnay con caratteristiche uniche, che si impone su ogni tavola e non teme confronti, anzi li affronta spavaldo, sicuro di sé. Un po’ come Velardi che non si sottrae ai dibattiti politici dicendo sempre con chiarezza ciò che pensa, anche se si tratta di cose spiacevoli o che possono scontentare qualcuno.

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In un’altra epoca, quella che definisce “fase agreste”, era (quasi) deciso a mollare tutto e trasferirsi a vivere in campagna. Con alcuni amici aveva messo su una piccola azienda agricola in Irpinia dove produceva anche il vino.
La “fase agreste” poi è passata.
«La mia vita è fatta di passioni, passioni mobili e cangianti. Ammetto che l’innamoramento “rurale” è durato piuttosto poco, il tempo di avviare una campagna di marketing per sponsorizzare le nostre etichette e decidere che il caos metropolitano mi piaceva di più».

Marketing a parte, il vino com’era?
«Di tutto rispetto. Ci affidammo all’enologo Vincenzo Ercolino, nome importante nel settore».

Fu il patròn di Feudi di San Gregorio negli anni ’90.
«Appunto, lo chiamammo perché era un esperto riconosciuto e infatti fece un ottimo lavoro. Fiano, Aglianico, Greco di Tufo, due bianchi e un rosso molto ben riusciti».

E poi?
«Poi basta, erano i primi anni Duemila, mercato quasi saturo e tante nuove aziende pronte a farsi largo. Per farcela ci sarebbero volute forza, voglia e soldi, a me mancavano tutte e tre».

Fare vino è complicato.
«Complicato e costoso. Avremmo dovuto continuare a investire e non avevo intenzione di farlo, mi tirai fuori dopo aver preparato un’operazione di marketing secondo me niente male».

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Il marketing le piaceva più del vino, dica la verità.
«Senza dubbio. A me appassionava la dimensione della comunicazione, quella enologica molto meno. Il nome del marchio era “A Casa”, il logo una semplice casetta stilizzata, le potenzialità c’erano tutte anche se poi non è andata».

Bianco, rosso o bollicine?
«Devo fare una premessa. Sono malato di salutismo».

Quindi non beve?
«No no bevo, anzi il vino mi piace molto, l’Aglianico che produce il mio amico Francesco Izzo a Melizzano è un must. L’enoteca Continisio poi è un punto di riferimento».

Torniamo alla premessa?
«Che poi è un’altra fase della mia vita».

Quale?
«Quella 8/16».

Che vuol dire 8/16?
«Sono i tempi del digiuno intermittente, mangio solo durante una finestra giornaliera di otto ore, nelle altre sedici digiuno. Il vino me lo concedo quando sgarro».

Che cosa mangia nelle ore autorizzate?
«Comincio con la colazione, in realtà è un pranzo alle otto del mattino, dopo aver letto i giornali e fatto il podcast. Sveglio mia moglie, ci mettiamo a tavola e mangiamo un po’ di tutto. Intorno alle 14 invece un piatto di verdura e una proteina».

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E poi basta fino alla mattina?
«Basta, niente cibo per sedici ore. La sera prima di andare a dormire una bella tazza di camomilla con la melatonina. Non vi nascondo che alle 10 spesso sto già a letto».

Che allegria.
«Si dorme benissimo».

E il vino?
«Diciamo pure che lo sgarro è previsto. Un bicchiere a pranzo quando ne ho voglia lo bevo. Se poi si esce anche un paio di calici me li concedo. È chiaro che bevendo poco il vino deve essere ottimo».

Preferenze?
«Sono francofilo. Il pianista Arthur Rubinstein diceva: “Impara la tecnica e poi dimenticala, è così che viene fuori l’arte”, ecco noi stiamo ancora imparando la tecnica».

I francesi invece l’hanno anche dimenticata.
«Il loro vino ha una sapienza secolare, i rossi sono un’altra storia, straordinari in una grande semplicità, quelli italiani invece sono impegnativi, come se farli avesse richiesto tanta fatica. Nei bianchi andiamo meglio ma vogliamo fare paragoni con il Sancerre o lo Chablis?».

Il miglior vino francese che ha bevuto?
«Una bottiglia di Romanée Conti del ’78, forse una delle più esclusive al mondo».

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La cantina è tra le più prestigiose, con tutta probabilità anche la più cara.
«Il prezzo non osai chiederlo».

Dove l’ha bevuta?
«L’episodio è divertente. Per diversi anni abbiamo festeggiato il compleanno di Maurizio Costanzo da Vissani, ospiti di Gianfranco ovviamente. Una delle ultime volte, quando di vino ne avevamo bevuto già abbastanza, Costanzo lo sfidò: “Ora apri la bottiglia più costosa che hai in cantina”».

E Vissani?
«Con grande dolore portò a tavola il Romanée Conti».

Com’era?
«Se riesci a berlo anche una sola volta nella vita puoi considerarti un uomo fortunato».
 





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