Scappo dalla città, e salvo la natura

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C’è un universo verde che si espande a macchia di leopardo sul pianeta: è quello composto da tutte le terre abbandonate dall’uomo, a causa della cessazione di attività come agricoltura, allevamento ed estrazione mineraria.

Una cava per l’estrazione mineraria

Un black out economico sempre più spesso collegato alla crisi climatica: piccole imprese familiari che scompaiono dopo alluvioni, incendi, periodi di grande siccità o gelate che annullano il lavoro di una vita in una sola stagione. Qui la natura sovrana vuole recuperare il suo scettro con grande entusiasmo, ma i festeggiamenti per l’uscita di scena del genere umano hanno spesso risvolti imprevisti: si innescano dinamiche ribelli che invece di arricchire l’ambiente lo rendono più debole. A volte umanità fa rima con biodiversità.

Se la natura da sola non può farcela

Secondo lo studio condotto dagli scienziati Gergana Daskalova e Johannes Kamp, pubblicato su Science, l’estensione complessiva di tutte le regioni abbandonate dal 1950 ad oggi equivale a metà Australia. Una buona notizia?

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Sfruttati i polmoni verdi come la foresta amazzonica, possiamo ora recuperare suolo e biodiversità con questo puzzle di territori dove la natura si sta risvegliando e sta cercando di tornare al suo volto primordiale? La risposta sembra essere sì, ma non senza l’intervento umano. Paradossalmente, una regione abbandonata dagli stessi bipedi parlanti che per anni l’hanno coltivata, disboscata, scavata, in una parola modificata, non riesce a conservare la sua biodiversità se viene completamente lasciata al suo destino. Che sarà quello di soffocare nella sua stessa rivoluzione verde, e perdere una quota importante della sua varietà di specie animali e vegetali. In una terra resa orfana dagli umani la natura tende infatti a muoversi in modo disordinato, con un’esuberanza pericolosa che privilegia solo alcune specie, come una creatura malata che vuole a tutti costi recuperare le forze ma segue in modo arbitrario una terapia sbilanciata. Secondo la scienza più recente c’è bisogno di un sostegno “infermieristico” di natura antropica.

Camminando ogni giorno fra gli arbusti che abbracciano con insolenza le case e sui campi agricoli dismessi, Daskalova ha rilevato come la terra abbandonata possa rischiare il degrado più di quella abitata, se il ripristino non viene accompagnato da interventi umani.

“Dipende da cosa consideriamo “giusto”, e quale tipo di ecosistema vorremmo ripristinare in queste terre abbandonate – spiega Gergana Daskalova, studiosa del cambiamento climatico – se parliamo di una terra sterile o inquinata, non potrà diventare rigogliosa senza una banca naturale di semi, e di specie che si danno da fare per diffonderli: rischierà invece di attirare nuove specie invasive e aliene. È qui che occorre l’intervento umano: per rimuovere le specie infestanti e reintrodurre quelle native. Ci possono essere campi che possono diventare foreste senza l’aiuto umano, ma sono in genere circondati da boschi preesistenti e si trovano in aree dove piove spesso. Di fatto, in un’epoca dove il clima cambia sempre più velocemente, restaurare un ecosistema originario è già di per sé discutibile: possiamo probabilmente crearne di nuovi mai esistiti prima, più o meno ricchi di biodiversità.”

Il clima estremo sta rendendo impossibile il ritorno di un paesaggio al suo antico aspetto.

E non basta piantumare alberelli per far rinascere una foresta: “Se non si tratta della specie giusta, se non vengono date le cure appropriate dopo l’interramento, questi baby-albero difficilmente diventeranno una foresta, e non sopravviveranno per più di un anno. Specialmente ora che molte zone sono diventate aride a causa della siccità.” Non tutti gli alberi che conosciamo sono destinati a sopravvivere al cambiamento climatico: la conifera, che cresce in ambienti secchi, potrebbe resistere meglio di altre specie.

Ritorno in campagna

Gergana Daskalova è una giovane scienziata bulgara: nel suo Paese sta osservando trenta villaggi soggetti a spopolamento, confrontandoli con altri centri di campagna ancora abitati. La Bulgaria dal 2000 è il fanalino di coda della crescita demografica mondiale: già dopo la caduta del comunismo negli anni ’90, il collasso economico e l’impennata di emigrazione hanno provocato un calo della popolazione da quasi 9 a meno di 6.5 milioni di abitanti. La popolazione delle campagne si è spostata in città, riducendosi di quasi un terzo.

Gergana ha deciso di tornare a vivere a Tyurkmen, il suo paese natale, nella casa dei nonni: dei 12.000 abitanti ne sono rimasti 200, la maggior parte delle abitazioni è ormai deserta: qui tracce di vita quotidiana si confondono con erbacce, ragnatele e nidi di uccello, creando una nuova roccaforte selvatica dove l’essere umano sembra un ospite appena tollerato. L’unico centro di attività è l’ufficio postale, dove arriva la merce di base che un tempo si trovava nei negozi, ora serrati.

Intorno a Tyurkmen la campagna sta scomparendo, inghiottita da nuove piante spontanee e sbuffi di foresta intricata che sottraggono la luce ai fiori, agli insetti, anche agli uccelli che amano nidificare nelle praterie, insomma a tutto l’ecosistema tipico degli spazi aperti che prosperava in armonia con quello più selvaggio dei boschi. La soluzione sta infatti nel tutelare la varietà del paesaggio: lo stanno facendo alcune delle famiglie di contadini ancora residenti a Tyurkmen, che con attività agricole rispettose della natura mantengono uno scenario “a mosaico”, dove i pascoli si alternano alle piccole foreste, le praterie con fiori selvatici ai boschi più intricati. Senza di loro le specie più prepotenti avrebbero il sopravvento e porterebbero in breve tempo al collasso l’ecosistema. L’alternanza di spazi aperti e chiusi è la ricetta per un ecosistema in salute: un disboscamento moderato può essere benefico per la natura perché ritaglia distese erbose dove trovano alloggio animali e piccole piante amanti della luce e dei rumori che non potrebbero sopravvivere nel silenzio e nell’ombra di una foresta.

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Gergana Daskalova e tutti i giovani che come lei hanno fatto la coraggiosa scelta di lasciare la città per stabilirsi in questa campagna semi abbandonata rappresentano l’opportunità di restituire alla natura un aspetto sano ed un futuro di prosperità.

“Mi piace l’idea di essere capace di dare forma al mio piccolo mondo, avere uno spazio dove poter lavorare e creare secondo i miei valori – racconta Daskalova – Sono cresciuta in questo piccolo villaggio, Tyurkmen, e dopo la morte dei miei nonni ho cominciato a guardare oltre. Un comportamento naturale. Inizialmente scienza e vita in campagna mi sembravano incompatibili, dovevo scegliere. Con questo progetto nelle zone rurali della Bulgaria sono riuscita a combinare due realtà che apparivano inconciliabili. Molti giovani stanno tornando ai villaggi perché sembra ci sia qualche opportunità di lavoro in più. La generazione dei miei genitori ha enfatizzato l’idea di lasciare il paese natale per andare a studiare e lavorare in città. Per la generazione successiva, la mia, il successo non significa solo quello: molte persone hanno studiato, viaggiato e visto mezzo mondo, ma dopo hanno scelto di vivere nel villaggio dove una casa con giardino è più economica, c’è più pace, e la gente può condurre uno stile di vita più sereno.”

Bioingegneria, dalla preistoria ad oggi
Deforestazione | Foto di Aleksey Kuprikov | Pexels

Secondo la scienza più recente gli ecosistemi incontaminati non esistono, o almeno, non ci sono da millenni. Anche le regioni che ci appaiono più selvagge e ricche di biodiversità sono il prodotto di attività umane.

Modellare il paesaggio naturale è un’abitudine antichissima che non appartiene solo al genere umano: i grandi erbivori della preistoria, la cosiddetta megafauna, lo hanno fatto per migliaia di anni calpestando e divorando vegetazione, e tuttora animali come gli elefanti rappresentano un importante motore dell’evoluzione delle piante. Un erbivoro di grandi dimensioni modifica l’ambiente in vari modi: con l’escrezione disperde i semi, ma anche fertilizzanti come azoto e fosforo, in luoghi molto distanti; come una falciatrice livella il manto erboso ed estirpa le piante infestanti; dopo la morte, decomponendosi continua a regalare al terreno sostanze preziose. E l’uomo evolvendosi ha continuamente riorganizzato la biodiversità sulla Terra. Certo, già in epoca preistorica con la caccia ha causato estinzioni, come quella del bradipo gigante, del mammouth lanoso o della tigre dai denti a sciabola. Con l’agricoltura, la pesca e la deforestazione ha impoverito patrimoni ecosistemici. Ha tuttavia anche innescato variazioni nella quantità, struttura, diversità genetica di molte specie sia animali che vegetali.

Le migrazioni umane hanno creato un caleidoscopio di biodiversità: le erbacce che ora sono molto comuni in alcune regioni del mondo sono state portate dai coloni da terre dove non erano affatto dominanti, e lo stesso vale per molte specie di animali. Si parla di “paesaggi trasportati” nell’articolo di PNAS : a Cipro i coloni del Neolitico hanno trasferito una vera arca di Noè fra colture, bestiame come polli e pecore, animali da selvaggina come i daini, e sull’isola di Tonga i polinesiani hanno sbarcato 400 tipi di piante. Molte specie sono approdate clandestinamente un po’ dappertutto sulla Terra: ratti, topi, lucertole, lumache.

Quando i primi coloni della Nuova Guinea hanno bruciato foreste per fare spazio alle loro attività agricole, hanno anche favorito la crescita di nuove varietà di piante: con le sue oltre 13.000 specie vegetali, questo Paese oggi è considerato il forziere floreale dell’intero pianeta, con un corteo di oltre 700 specie di farfalle. Così come, ad esempio, l’attività agricola delle donne indigene dell’America Centrale, basata sulla religiosa conservazione dei semi di tante colture che rischiano di scomparire, da sempre tutela la biodiversità.

Si possono elencare innumerevoli esempi di creazione di nuovi habitat a seguito di insediamenti umani, come la foresta di querce e cereali selvatici nella Mezzaluna Fertile in Medio Oriente, o le estensioni di “terra preta” (“terra nera degli Indios”) nell’Amazzonia brasiliana, un suolo fertilizzato dagli indigeni precolombiani con materiale organico e carbone vegetale, che ha consentito il popolamento di alcune aree molto povere di risorse.

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“Molte delle regioni con maggiore biodiversità sulla Terra sono proprio quelle abitate e modificate dalle persone per centinaia di migliaia di anni. – afferma Erle Ellis, scienziato ambientale dell’Università del Maryland – Non solo molte popolazioni indigene hanno protetto la biodiversità, l’hanno anche ampliata creando habitat differenti con l’uso di pratiche come gli incendi, allevamento, modellazione dei paesaggi.”

 “Gli umani sono parte della natura. – conclude Ellis – Come molte specie che fanno bioingegneria, ad esempio gli elefanti e i castori, danno forma all’ambiente che abitano. La principale causa della attuale perdita di biodiversità è la recente appropriazione e lo sfruttamento intensivo di questi ecosistemi, soprattutto da parte di società coloniali e industriali, per le quali la sostenibilità ambientale non è una priorità.”



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