Tra le varie balle sparate a raffica nella bolla mediatica meloniana a proposito del caso Almasri, ieri se ne sono aggiunte due, di diversa dimensione. C’è quella infinitamente grande del complotto ordito dai servizi segreti di mezzo Occidente, a partire dagli odiati tedeschi, per inguaiare Giorgia Meloni, lasciarle in mano il cerino del tagliagola libico inseguito da un mandato di arresto internazionale e costringerla a rilasciargli un compromettente salvacondotto.
C’è poi la balla infinitamente piccola della vendetta gelidamente consumata dal procuratore di Roma Francesco Lo Voi, a cui il sottosegretario Alfredo Mantovano aveva tolto l’uso dei voli di Stato e che avrebbe montato tutta questa cagnara per un contenzioso di scarso pregio morale.
D’altra parte il complotto e il processo alle intenzioni sono ingredienti privilegiati di ogni teoria cospiratoria, perché hanno questa caratteristica: diventano credibili proprio perché non sono dimostrabili e quindi neppure falsificabili. Se si vuole rendere verosimile una spiegazione assurda, la cosa migliore è procurarle una motivazione abnorme e al di là di ogni possibile esperienza.
Però quando nel senso comune sono travolte le barriere razionali, finiscono schiantate anche quelle morali. Infatti c’è mezza Italia che continua a discutere e a scandalizzarsi di tutto, fuorché del cuore della vicenda, cioè che il governo italiano – al di là dei discutibilissimi profili penali della mancata cooperazione giudiziaria del ministro Carlo Nordio con la Corte penale internazionale – abbia liberato e portato in salvo un criminale libico, e lo abbia fatto non assumendo la responsabilità politica di una decisione difficile e tragicamente necessitata, ma addebitandone la colpa a magistrati nazionali e internazionali pasticcioni, a cui il governo non ha potuto porre rimedio.
In questo disprezzo della verità alligna anche il disprezzo dell’umanità e della sorte di tutti i disperati che sono passati e passeranno tra le mani di Almasri, pensiero che in tutta la destra italiana non suscita neppure un millesimo dell’angustia provocata dai dolorosi rovelli sugli atti dovuti o voluti, dallo sfregio alla legalità rappresentato da un’interpretazione troppo letteralista del ruolo delle procure nei reati ministeriali all’irrispettosa pretesa delle opposizioni di conoscere a che prezzo e con quali contropartite il governo abbia concluso la sua specialissima trattativa Stato (italiano) Mafia (libica).
Nella ridda di sospetti sui servizi di mezzo mondo e sul dottor Lo Voi, ieri da destra sono anche continuate – con il rinforzo di sempre più numerosi giuristi di complemento – dottissime reiterazioni di quella che è stata anche la doglianza maxima espressa dalla Giunta dell’Unione delle Camere Penali, cioè il mancato cestinamento dell’esposto di Luigi Li Gotti che a quanto pare non avrebbe esposto un «fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice» (articolo 335 del codice di procedura penale) e quindi non avrebbe dovuto finire al tribunale dei Ministri.
Il punto penalisticamente focale di questa vicenda non è quindi la catasta di morti ammazzati che Almasri ha disseminato sul proprio cammino, ma – non ridete – il combinato disposto tra la previsione del codice di rito, che obbliga il procuratore a cestinare le denunce deliranti e quella della legge costituzionale 1/89 che obbliga la procura a trasmettere le denunce per i reati ministeriali al tribunale dei ministri «omessa ogni indagine» (articolo 6, comma 2).
Seguendo la scia di questo appassionante dilemma, bisognerebbe ragionevolmente concludere che il filtro da parte della procura per i reati ministeriali può eventualmente comportare verifiche che non comportano però atti di indagine. Se, per fare un esempio, un esposto accusasse Meloni di avere dichiarato segretamente guerra alla Russia senza l’autorizzazione del Parlamento, la Procura di Roma non avrebbe avuto bisogno di acquisire informazioni o testimonianze per cestinarla.
Visto che l’esposto di Li Gotti accusa Meloni e i ministri Nordio e Piantedosi di fatti assolutamente determinati, non inverosimili e assolutamente accertati di mancata cooperazione con la Corte dell’Aja e ne ipotizza l’inquadramento in una fattispecie incriminatrice (prescindendo ovviamente dalla fondatezza dell’inquadramento), come avrebbe potuto la Procura di Roma, senza compiere alcun atto di indagine, dichiararla priva dei requisiti minimi per l’iscrizione e la trasmissione al tribunale dei ministri? Sembra strano? Eppure in Via della Scrofa dovrebbero ben sapere che è proprio così.
Alla fine del 2020, l’ex parlamentare e attuale vicepresidente della Regione Lazio, Roberta Angelilli di Fratelli d’Italia, presentò un esposto alla Procura di Roma accusando il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di avere messo la propria scorta a disposizione della compagna, Olivia Palladino. Il gravissimo indizio del reato ministeriale compiuto da Conte – nientepopodimeno che peculato! – era rappresentato da un filmato della trasmissione Le Iene, in cui si dimostrava che un agente della scorta aveva soccorso e protetto la compagna del Capo del Governo dallo stalkeraggio mediatico compiuto da parte di un inviato della trasmissione all’interno di un supermercato.
La Procura di Roma, anziché fare ciò che l’esposto evidentemente meritava – farla finire nel cestino – fece ciò che l’articolo 6 della legge 1/1999 imponeva, cioè girare l’esposto monnezza al tribunale dei ministri – proprio perché sui reati ministeriali la procura territorialmente competente non ha alcun potere di indagine – che ci mise quattro mesi per buttarlo nel cestino. Intanto, per quattro mesi, l’intrepida stampa della destra italiana sparse in ogni dove i velenosi miasmi della monnezza auto-prodotta dagli apprendisti stregoni del garantismo variabile.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità *****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link