Cambiando l’ordine degli addendi non cambia il risultato: tutti i 43 richiedenti asilo rinchiusi nel centro di Gjader, 35 del Bangladesh e 8 dell’Egitto, tornano liberi. Stavolta il no ai trattenimenti è arrivato dalla Corte d’appello della capitale, dopo che il governo aveva sottratto la competenza alla sezione romana specializzata in immigrazione, che il 18 ottobre e l’11 novembre dell’anno scorso aveva deciso nello stesso modo. In questo caso le toghe capitoline hanno sospeso il giudizio rinviando tutto alla Corte di giustizia Ue.
UN PROVVEDIMENTO che si inserisce nella scia di rinvii pregiudiziali a Lussemburgo partiti dai tribunali di Bologna, Palermo e Roma e della sospensione del giudizio della Cassazione in attesa dell’udienza europea del 25 febbraio e poi della sentenza che dovrebbe arrivare entro la primavera. In tutti questi procedimenti la richiesta dei giudici nazionali a quelli comunitari è di chiarire se sia legittimo, ai sensi delle direttive Ue, considerare «sicuri» paesi che non lo sono per alcune categorie di persone.
Categorie che spesso includono migliaia e migliaia di persone, come in Egitto e Bangladesh. Lo dimostrano le relative schede paese redatte sulla base delle fonti qualificate e allegate al vecchio decreto interministeriale del maggio 2024. Schede che dovrebbero essere sostituite, secondo la nuova legge, da una relazione del Consiglio dei ministri da trasmettere alle competenti Commissioni parlamentari. Il termine per scriverla era il 15 gennaio ma, a quanto risulta da un’interrogazione presentata dal deputato di +Europa Riccardo Magi, la settimana scorsa risultava ancora «in via di definizione».
NELLA SUA DECISIONE la Corte d’appello richiama lo «specifico dovere», che la sentenza europea del 4 ottobre scorso attribuisce al giudice, di «verificare d’ufficio» la legittimità della designazione di «paese sicuro» da parte delle autorità governative. Cita anche l’ordinanza interlocutoria della Cassazione che, pur non fissando un principio di diritto in attesa dei procedimenti pendenti a Lussemburgo, specifica che «le eccezioni personali, anche se compatibili con la nozione di paese di origine sicuro, non possono essere ammesse senza limiti».
Per quell’ordinanza gli esponenti dell’esecutivo, in barba a qualsiasi realtà giuridica, avevano esultato sostenendo: «Ci dà ragione». E invece i giudici d’appello, seguendo l’analogo ragionamento delle sezioni specializzate in immigrazione dei tribunali civili, ritengono che sarebbe illogico non poter considerare sicuro un paese con eccezioni per parti di territorio, come chiarito dalla Corte Ue, ma poterlo fare quando esistono esclusioni per categorie di persone che valgono su tutto il territorio dello Stato. È questa l’opinione che le toghe capitoline propongono ai colleghi europei: alla fine, comunque, spetta a loro l’ultima parola.
A LIVELLO GIURIDICO era un esito prevedibile, sebbene non scontato, che dimostra come l’ennesima forzatura del governo risponda a tutt’altre logiche. È il riflesso delle immagini di esseri umani deportati in catene da quella che viene considerata la principale democrazia dell’Occidente, gli Usa caduti per la seconda volta nelle mani di Donald Trump, e dei segnali sconfortanti che giungono dalla Germania dove, nonostante la bocciatura di ieri della stretta sugli stranieri, la storica diga anti-nazista che ha tenuto per 80 anni è caduta proprio sulle politiche migratorie con il voto congiunto di Cdu e Afd di mercoledì.
In ogni caso, almeno per i 43 richiedenti asilo costretti dietro le sbarre dei centri albanesi la libertà è dietro l’angolo. Saranno trasferiti a Bari questa mattina, partenza prevista intorno alle 12 a bordo di una nave della guardia costiera. «È un colpo durissimo al piano del governo. L’operazione si rivela, ancora una volta, fallimentare e insostenibile dal punto di vista giuridico», attacca il Tavolo immigrazione e silo che per la terza volta ha attraversato l’Adriatico per monitorare lo svolgimento delle operazioni. Il Tai, però, avverte: «Ora il compito della società civile e della politica è chiaro: trasformare questa crisi in un punto di non ritorno, impedire nuovi trasferimenti e bloccare definitivamente un meccanismo che cancella i diritti delle persone in cerca di protezione».
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