Le donne che lo conoscono superficialmente, dicono che è un femminista. Quelle che lo conoscono profondamente, invece, dicono che è un maschilista. Se ne deduce, dice lui, che «Se sono migliorato, l’ho fatto solo superficialmente». In verità, Francesco Piccolo, scrittore e sceneggiatore, sa bene che migliorare non significa diventare femminista e sa altrettanto bene che per crederlo, o dire di crederlo, si deve essere maschi, un tipo particolare di maschi: quelli nuovi, in remissione dei peccati. I progressisti. Quelli che dicono che sì, il patriarcato esiste, e la virilità tossica pure, ma loro sono diversi, puliti, ripuliti, migliori, amici, compagni. Maschi che sono un’invenzione e un’ambizione, una speranza e una sciagura e Piccolo lo ha scritto molte volte, in molte occasioni, e ora lo ha fatto in un altro modo anche in un libro che s’intitola Son qui: m’ammazzi, appena uscito per Einaudi, e che racconta tredici personaggi maschili di grandi capolavori della letteratura italiana per dire: ecco chi sono i maschi, ecco come li ha visti e raccontati la letteratura ed ecco come, inevitabilmente, la letteratura attraverso di loro ha condizionato chi ha letto e amato le loro storie. Orlando, Zeno Cosini, Don Fabrizio, l’Innominato, Antonio Dorigo, Milton, Antonio Magnano: i violenti, gli impotenti, gli incrudeliti, i vendicativi, gli orgogliosi, i meschini, i vili, i riottosi, i traditori, i possessivi che, nonostante tutto questo, si stagliano grandiosi, perché sono anche grandiosi. «Sono stato molto euforico mentre scrivevo questo libro: ho raccontato personaggi esaltanti, e nelle loro terribilità mi sono riconosciuto, e riconoscersi è sempre esaltante», dice Piccolo alla Stampa.
Riconoscersi in un capolavoro serve a: vantarsi, giustificarsi, legittimarsi, tutte e tre le cose, nessuna?
«Nessuna, temo. Ho scritto questo libro per raccontare come sono io. Il mio non è un atto di accusa, ma un modo di guardarmi dentro in quanto maschio. Non voglio condannarmi, voglio solo dire con chiarezza che dentro di me, per quanti sforzi faccia e per quanto io tenti di essere migliore, ci sono delle caratteristiche di dominanza che è difficile tenere a bada. La più feroce di queste caratteristiche è l’istinto a difendere le strutture che mi rendono dominante, sebbene io riconosca che sono strutture sbagliate e ingiuste. Il mondo è fatta a misura di uomini perché lo hanno fatto gli uomini. Ed è per questo che io so che farò sempre due cose: da una parte deprecherò quelle strutture, dall’altra correrò a difenderle».
Per questo non crede nell’uomo nuovo?
«Lo diceva Carla Lonzi prima di me: “Noi neghiamo come un’assurdità il mito dell’uomo nuovo”. E io lo dico a me stesso: so di non essere veramente un maschio evoluto e so che mi porto dentro elementi che fanno quotidianamente resistenza alla mia evoluzione. Sono capace di fare una riunione di due ore con la sceneggiatrice con cui lavoro da molti anni e interromperla sette volte: è successo ieri, e lei ha detto per sette volte “aspetta, fammi finire”».
Lei è inemendabile o solo pigro?
«Io credo che la sola cosa che posso fare è guardarmi dentro e acquisire consapevolezza. Che la consapevolezza sia poi propedeutica al miglioramento è possibile, ma che poi si migliori veramente è tutto da vedere».
La cosa non sembra dispiacerle.
«Non credo che gli scrittori debbano porsi il problema di migliorare il mondo: è una costruzione falsa e fallimentare dell’intellettuale. Il mio problema è cercare di vedere le persone e raccontarle, non migliorarle».
Però lei scrive un libro su come i personaggi maschili ci hanno condizionati.
«Certo, e lo hanno fatto nel bene e nel male, perché chi li ha scritti non si è posto il problema di migliorare i lettori».
È vero che i libri cambiano la vita di tutti, anche di chi non li legge?
«Non ho questa idea edificante della letteratura e della vita culturale. Credo che i libri possano mostrare molti bui. Scrivere e leggere non sono esercizi terapeutici positivi, e se a volte possono diventare terapeutici, sono comunque esercizi terrificanti. E allora sì che diventano utili: affidarsi ai libri come da decenni diciamo di fare, con un senso della cultura ingenuamente edificante, è un cattivo servizio che facciamo alla letteratura. Dai libri, i lettori devono essere portati all’inferno».
Ma quando mi porta all’inferno, mi sta svelando qualcosa o la sta inventando? Se Don Fabrizio e Orlando sono maschi inventati, sarà facile rimuoverli e rimpiazzarli. Altrimenti, dobbiamo ammettere che sono come sono perché hanno tratti innati di crudeltà e violenza.
«Innato è una parola pericolosa, perché intende che non siamo prodotti culturali e invece lo siamo».
Quindi l’animale che si porta dentro è un prodotto culturale?
« Il troglodita che mi porto dentro non esiste in natura, per questo che contrastarlo è difficile».
Ma possibile?
«Tra molto tempo lo sarà».
Quanto?
«Tremila anni».
Il genere umano non ci sarà tra tremila anni.
«Ed è per questo che sarà possibile».
Stiamo nel presente.
«Io sto nella letteratura. Che racconta quei maschi non perché li inventa ma perché li ha riconosciuti e li ha visti e ha capito che parlarne è importante. Quando Eduardo dice che fa più impressione un morto sulla scena, vuole dire che di morti ce ne sono così tanti da doverne parlare, portandoli sulla scena».
Dice che i maschi progressisti sono il male assoluto. Perché?
«Perché non sono visibili completamente. Ci sono quelli che dicono voglio scopare con te e quelli che dicono io non penso affatto a scopare con te. Tutti e due dicono la stessa cosa, ma il secondo è il più infido».
Neanche nel troglodita c’è una parte naturale, se non innata?
«Lei insiste, ma la mia risposta sull’innato è netta ed è sempre no. Se crediamo che esiste una componente naturale, peraltro, eliminiamo ogni possibilità di cambiare».
Ma lei, in fondo, è questo che dice quando dice: io sono questo.
«No. Io dico: io sono questo, e voglio andare a fondo di chi sono, perché adesso serve prima di tutto consapevolezza. In questi anni la cosa da fare è confessarsi, fare quello che un tempo si chiamava autocoscienza».
Tanto a lei chi l’ammazza.
«Nessuno. Anche perché non è la cosa più semplice del mondo. Possono tentare di ammazzarmi, ma solo tentare».
Quando, nei Promessi Sposi, Lucia dice all’Innominato “Son qui: m’ammazzi”, si offre senza difese. Lei ci ha fatto il titolo del suo libro con quella frase, ma sa che non c’è al mondo un uomo che possa andare indifeso al cospetto di chicchessia e dire: son qui, m’ammazzi.
«Lo so. E meno che mai io».
C’è differenza tra uomo e maschio?
«L’uomo non riesce a essere veramente uomo ma nella sostanza è sempre maschio: tenta di essere uomo, cioè adulto cosciente, e invece è una specie di guerriero che vuole vincere tutto, quello è il maschio. Nel Giardino dei Finzi Contini, a un certo punto, padre e figlio, che sono due persone colte, due personaggi moderni, per arrivare a parlare di sentimenti, devono passare per la complicità sessuale. È più facile per il padre dire: sei stato al casino, ci andavo pure io. Questo, semplicemente questo, fa capire che i maschi sono esseri umani disturbati».
Disturbati!
«Rido. E ci sono andato anche leggero».
Nel Bellantonio, quando il padre scopre che il figlio è impotente, dice: “non ho più un figlio”.
«Il desiderio è la questione identitaria centrale. L’ultima cosa che Don Fabrizio, nel Gattopardo, guarda prima di morire sono i seni di Angelica. Zeno Cosini, che pure è un personaggio modernissimo ma dice “non posso nemmeno essere amico delle donne brutte”, accetta di sposare Alberta, che è strabica, perché quando le mette le mani sui fianchi, sente che sono benfatti».
Spesso, scrive: chissà, in fondo è un personaggio scritto da un uomo. Ha mai sentito che essere un maschio la limitava nella scrittura?
«Diciamo che se non l’ho sentito come limite è perché mi sono occupato di cose che mi erano consone. Credo di aver raccontato le donne con la sincerità del punto di vista del maschio: ho rispetto chi si mette nei panni di altri, ma io non lo faccio, non mi interessa, non sono capace».
Sara De Simone, critica letteraria, dice che “per il poeta la morte dell’amata è il massimo”.
«Ed è vero. Si tratta di un esercizio di potere. Del resto lo scrittore, in generale, a prescindere da questa questione, fa continuamente esercizio di potere. Una delle cose migliori dell’essere scrittore è che gestisci il mondo, sia se lo inventi che se lo interpreti, come ti pare. Ed è come fa l’Innonimato: posso violentarti, salvarti, ammazzarti, ma lo decido io».
A voi è dato di non cambiare e lei lo sa. E allora di cosa parliamo quando parliamo di “tramonto del maschio”?
«Del tramonto del potere che ha un maschio, e a cui reagisce sempre con violenza. Don Fabrizio dice: se avessi ancora quel potere, non avrei bisogno di far venire Angelica in casa mia e farle sposare Tancredi: me la prenderei e basta. La vecchiaia è la vera questione del tramontare per chiunque abbia potere, forza, voglia di fare la guerra e di picchiarsi. L’unica soluzione che sanno trovare i maschi è picchiarsi. Ma picchiare richiede forze, e le forze finiscono con l’avanzare degli anni. Ecco la sola cosa che veramente fa paura ai maschi: perdere le forze».
Una storia d’amore dove non ci sia squilibrio di forze e vada tutto bene, la scriverebbe?
«A questa domanda non risponderò mai. So che però mi sembrerebbe invenzione».
Un’invenzione noiosa?
«Lo dica lei, lo scriva lei. Se lo riconosce lei è diverso: se lo faccio io, riaffermo una supremazia, e non voglio».
Lei ce l’ha il lato femminile?
«Rido? Rido».
Cos’ha pensato quando ha visto la cerimonia di insediamento di Trump?
«Che non è un uomo nuovo, è un troglodita. Ed è pericoloso come Presidente degli Stati Uniti, ma in quanto uomo no».
Si cambia?
«Molto meno di quanto si crede. Ma molto meno. E non ci si può fare niente».
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