Le riunioni dei confindustriali di queste settimane hanno fatto proprio il leit motiv dell’Europa matrigna. Ma anche l’imprenditoria italiana ha delle responsabilità
Gli imprenditori italiani si vanno contrapponendo frontalmente all’Europa. Il contesto è quello di una crisi industriale che morde la base produttiva e richiama altre stagioni negative, una crisi che viene raccontata più con la litania dei 22 mesi di produzione industriale out che con un approfondimento sulle cause di lungo e medio periodo.
Le riunioni dei confindustriali di queste settimane hanno dunque fatto proprio il leit motiv dell’Europa matrigna. Pare quasi che tutto dipenda dal Green Deal e dalle altre scelte del primo governo Van der Leyen e si arriva a bollarle come “politiche distruttive e folli”. L’accusa a Bruxelles è quella di aver deciso una politica di transizione alle vetture elettriche dirigista e tecnologicamente talebana, di non aver preso in considerazione i riflessi che avrebbe avuto sull’industria europea dell’automotive e i vantaggi che avrebbe invece inopinatamente concesso ai cinesi. Insomma il disastro ha un colpevole e va cercato nella capitale belga. All’Europa viene anche imputato l’andamento del costo del gas e anche in questo caso i riflessi che sta avendo su una struttura produttiva come quella italiana che ha nell’approvvigionamento energetico il suo tallone d’Achille. E non certo da ieri.
Ieri a Milano il neo-presidente di Confindustria Lombardia, il siderurgico bresciano Giuseppe Pasini, ha detto “di non sentirsi di casa in questa Europa” a causa dell’ideologismo green che sta affossando la manifattura cuore produttivo del Continente. L’opinione di Pasini – visti gli applausi ricevuti nell’occasione – è largamente condivisa dai suoi colleghi, qualcuno dei quali in camera caritatis la dice tutta: è stata una leggerezza impegnarsi in una guerra contro la Russia per difendere tutti i territori ucraini e per allargare il perimetro della Nato.
Il posizionamento degli industriali ricalca in qualche maniera le posizioni del governo di Roma e sancisce quindi un idem sentire tra la maggiore associazione degli imprenditori italiani e l’esecutivo. Per carità, le imprese sono uscite con le ossa rotte dal lungo lavoro di confezionamento della legge di Bilancio. Per onor di bandiera si sono impegnate a corpo morto per introdurre nel testo finale l’Ires premiale ma sono le prime a sapere che non è certo il provvedimento salvifico che si aspettavano. Che sicuramente in materia era meglio la vecchia Ace cassata però d’imperio dal governo Meloni e in specifico dal Mef. Insomma se ci mettiamo a parlare di politiche nazionali a favore delle imprese c’è il rischio che l’idillio Confindustria-governo salti, che emergano delle contraddizioni e così la panacea diventa indirizzare tutto il carico polemico contro Ursula e le burocrazie brussellesi. “Trentaduemila persone che paghiamo per scrivere norme assurde e invece dovremmo pagare per cancellare le troppe norme che hanno scritto” ha detto dallo stesso palco di Pasini il presidente nazionale di Confindustria, Emanuele Orsini. Lo stesso che cosciente delle ferite lasciategli dalla confusa fase di stesura della legge di Bilancio dice di non voler ripetere più quell’esperienza e di esigere da oggi in poi politiche per l’impresa con l’orizzonte dei tre anni. Vedremo cosa gli risponderà a tempo debito Giorgia Meloni ma intanto i segnali vanno monitorati.
Oltre alle esigenze di allineamento al governo (“che assicura una stabilità politica mai vista” dixit Pasini) a motivare il fuoco di fila sul governo Ursula c’è il timing. Si sa che da qui al 5 marzo si definiranno le linee programmatiche del Clean Industrial Act che dovrà riscrivere le regole del Green Deal e gli imprenditori fanno a gara a nutrire sospetti e avanzare dubbi più o meno scaramantici. Non c’è più in sella l’odiato commissario olandese Timmermans ma tra i confindustriali non tira aria di approvazione e stima per i nuovi commissari. Si teme il continuismo. Insomma come se gli industriali si sentissero in campagna elettorale a poche settimane dalle urne e quindi aumentassero la loro pressione per un’inversione di tendenza giudicata più che obbligata. E non a caso molti degli imprenditori italiani guardano con attenzione alla mobilitazione dei sindacati a Bruxelles per l’Industriall Europe con l’obiettivo di rivendicare sotto la sede del Consiglio europeo un piano per il Vecchio Continente.
Pur riconoscendo che molte istanze che i confindustriali avanzano hanno una loro obiettiva giustificazione nello stato dei fatti e nelle politiche sbagliate adottate da Bruxelles, quella che colpisce è la reductio ad unum. Implicitamente la grande crisi industriale che stiamo attraversando è spiegata con le follie della commissione Von der Leyen/1. E questo appare sufficiente per tenere compatta la base e non perdere il contatto con il gabinetto Meloni. Ma è davvero così? La crisi della manifattura italiana, agli occhi degli osservatori esterni, appare più larga di questa narrazione semplificata e investe in primo luogo due temi di cui gli imprenditori parlano poco: il tracollo degli investimenti privati e il drastico calo della produttività. Due temi poco frequentati perché implicano una discussione “dentro” il corpaccione dell’industria italiana. Con tutta la fenomenologia che ne consegue e che parla di rinuncia ad ammodernare le macchine, di scarsa attenzione alla produttività del lavoro, di un andamento anagrafico che lascia alla testa delle imprese i senior e non favorisce il ricambio o l’apertura all’esterno. Si dovrebbe discutere senza timori – e andrebbe a vantaggio della stessa presidenza Orsini – delle responsabilità che l’imprenditoria italiana ha per il cul de sac in cui rischiamo di finire. Nessuno pensa a un’operazione tafazziana per di più contro tempo ma di una discussione che libererebbe energie per combattere meglio in questa stagione. Insomma Bruxelles si può criticare durissimamente ma non può essere l’alibi per un’auto-assoluzione totale.
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