“Non era clausura ma amore per Dio” – Quella di suor Francesca Battiloro è stata davvero un’esistenza intera dedicata al Signore

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di Flaminia Chizzola

«Sono stata cresimata a 2 anni. A 6 ho fatto la prima comunione. A 8 sono entrata in monastero e a 16 anni ho fatto i voti solenni».

Questa è la storia di suor Francesca Battiloro, una storia fatta di fede, di accettazione, di sofferenze: «Sarei dovuta morire dopo poco che ero nata», dice la piccola religiosa dagli occhi profondi e ciechi che il 25 gennaio ha festeggiato 75 anni di professione solenne. Quand’era molto piccola, lei, che all’epoca si chiamava ancora Rosaria, non digeriva il latte materno e così deperiva sempre di più. «Ma una signora vedendo mamma che piangeva tutti i giorni a messa disse: “Ho una figlia dell’età di sua figlia, allatterò io la bambina.” E così fece. Quella signora si chiamava Annunziata», ricorda la suora mentre con le sue mani di carta velina accarezza la coperta a quadrettoni che tiene sulle gambe: «È grazie a lei se mi sono cresimata a 2 anni. Fu un’eccezione. La mia famiglia doveva trasferirsi da Torre del Greco, dove abitavamo, a Napoli e quando in paese si sparse la voce il marito di Annunziata venne a casa nostra, perché a quei tempi erano i mariti che si parlavano, e disse a mio padre: “Mia moglie vorrebbe un favore da voi”. “Qualsiasi cosa.” “Vuole cresimare la bambina. Adesso”. “Ma Rosaria ha solo 2 anni”, disse papà, ma Annunziata non voleva sentir ragioni e diceva: “Voi adesso andate a Napoli e chi la vede più la bambina”. Mio padre allora ne parlò con mio fratello prete. In famiglia eravamo sette figli: quattro si sono fatte suore, uno prete e gli altri due si sono sposati».

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Una famiglia piena di vocazioni, penso mentre lei continua il suo racconto: «Mio fratello era da poco diventato segretario del cardinale e così gli raccontò la storia del latte e il cardinale diede il permesso». E lei a 2 anni fece la cresima: «Sì, e subito dopo partimmo per Napoli, per andare a vivere nella cappellania del monastero della Visitazione, dove mio fratello era stato nominato cappellano e dove sarei presto entrata». «C’è ancora quel monastero?», le domando mentre osservo fuori dalla finestra il Vesuvio. Non l’ho mai visto così, con la cima nera ricoperta di bianco. «Al posto del monastero ci sono nove palazzi», risponde suor Francesca: «Era un gran bel monastero e noi vivevamo proprio lì, a una rampa di scale dalle suore: qui c’eravamo noi e lì, a distanza di pochi scalini, c’era la clausura. Le suore visitandine mi dicevano che santa Teresina era entrata in monastero a 15 anni, e io dicevo: “Io voglio entrarci presto. Io voglio entrare. Io voglio entrare”. E dopo aver fatto la prima comunione a 6 anni io mi alzavo tutte le mattine alle 6 e accompagnavo mamma in chiesa. Mamma era buonissima tanto che, quando è morta, il parroco disse: “È morta una santa”».

La religiosa fa una pausa e il mio sguardo si sposta dal Vesuvio innevato allo spoglio comodino accanto al letto ortopedico. Sotto la statuina della Madonna ci sono solo due foto in bianco e nero, foto ingiallite di un uomo con i baffi e il volto gentile, e una giovane donna col velo nero. Nessuno sorride, neanche la Madonna. «Per due anni feci la comunione ogni giorno e chiedevo sempre la stessa cosa: Gesù, fammi entrare in monastero presto». «Perché tanta fretta?», le chiedo. Suor Francesca mi guarda e anche se i suoi occhi non vedono è come se mi vedesse mentre dice: «Volevo essere tutta Sua, tutta di Gesù». E c’è riuscita, le dico; allora lei, che non ride quasi mai, accenna un sorriso: «Fece tutto Lui. Un giorno mia madre incontrò il cardinale che mi aveva cresimata e gli disse: “Come devo fare con Rosaria? Dice sempre che vuole entrare in monastero”. Il cardinale rispose: “Non ho trovato mai tanta perseveranza in una bambina di 8 anni. Facciamo un’eccezione». Un’altra, penso io. «“Facciamola entrare in monastero, del resto c’è la mamma a una rampa di scale; se la bambina non vuole restare, le aprono la porta e la fanno scendere». Il giorno dopo Rosaria andò a scuola e salutò la maestra, i compagni di classe, poi andò al cimitero: «Per salutare papà che era morto un mese prima; se ne andò nel giro di quattro giorni. Per questo nella foto che vedi lì mamma porta il velo», dice alludendo a quel volto che lei ha stampato nel cuore. «Dopo il cimitero mio fratello – me lo ricordo ancora come se fosse adesso – comprò dei babà e li portò a casa». L’ultima cena a base di babà, penso, mentre la suora che quest’anno compirà 95 anni continua il suo racconto: «Era l’8 maggio 1938, era domenica quando salii la rampa di scale che ci separava dalla clausura ed entrai in monastero».

«Non le dispiacque lasciare la scuola, la famiglia?», le chiedo. «Ero contenta», risponde. «Ma sapeva cos’era la clausura? Non poter più uscire?», incalzo. «Io sapevo che andavo da Gesù», dice, e d’improvviso quel volto segnato dal tempo e dalle sofferenze ritorna bambino e una voce piccina ripete a memoria: «Questa è la casa del buon Gesù, chi entra non esce più». Mi guardo attorno: nella stanza c’è un letto ortopedico, un comodino spoglio, un armadio che chissà da quanto nessuno riordina, sulla parete c’è un interfono da cui esce una voce gracchiante che annuncia il pranzo, e dietro di me, proprio davanti alla poltrona dove siede la suora troneggia un televisore spento, e se adesso mi volto di lato sfioro un grosso girello che l’accompagna dalla poltrona al bagno, e ritorno. Suor Francesca non vive più nella casa di Gesù dove “chi entra non esce più” ma in una casa di riposo delle suore della Carità che l’hanno accolta dieci anni fa quando il monastero dei Camaldoli, di cui era superiora, venne chiuso, nel giro di un mese, ed erano ancora in sette là dentro, ma di questo la suora dalle mani di carta velina non vuole parlare.

«Quella domenica, quell’8 maggio 1938, le suore erano tutte riunite in assemblea», riprende il racconto: «Mi aspettavano, tutte e sessanta, e quando mi videro vennero a salutarmi; tra loro ce n’era una un po’ grossa, me lo ricordo come fosse adesso, si chiamava Maria Assunta: mi venne incontro per abbracciarmi e io, piccolina com’ero, presi l’abito suo che era largo e me lo misi sopra». Come fosse già professa, penso, a 8 anni. Era l’unica bambina là dentro? Che vita faceva? «La vita di una bambina», risponde lei, e mi parla delle sue giornate, fatte di preghiera e studio, di silenzio e comunità, di faccende da sbrigare e premi inattesi. Non c’erano giostre né giochi nella casa di Gesù dove chi entra non esce più? «Non ce n’era bisogno», dice suor Francesca, e insieme con me ricorda le piccole gioie, i piccoli gesti, come nel giorno dell’Assunta quando la religiosa incaricata faceva trovare a tutte una tazza con dentro i fichi, o la festa del santo fondatore durante la quale si faceva una piccola recita interna e si mangiava la cioccolata. «Mi ricordo che io mangiavo tutto», riprende la suora dalle mani di carta velina: «Solo una cosa mi faceva impressione: le rape rosse. Allora madre Flores, la nostra superiora che mi voleva un gran bene, mi disse: “Mangiane una fettina per far piacere a Gesù”. Io lo feci e madre Flores mi regalò un’immaginetta del nostro fondatore. Ce l’avevo ancora prima di arrivare qua, poi non so dove sia finita». Guardo la camera: un crocifisso, una Madonnina e due foto ingiallite, e fuori dalla finestra il nero Vesuvio che lentamente si ricopre di una coltre bianca.

«E sua madre? La veniva a trovare?». All’inizio «tutti i giorni. Parlavamo ma sempre attraverso la grata, poi non venne più e mi dissero che stava male». Per andare a trovarla e per uscire ci voleva il permesso del cardinale. «Gliel’avete chiesto?»: «Sì ma quando arrivò mamma era già morta. Se ne andò come papà, nel giro di quattro giorni. Papà morì il 7 aprile 1938, mamma il 25 maggio». Non pensò di andarla a trovare anche senza il permesso perché «non si poteva, stavamo in clausura». Anche se lei aveva 8 anni e non aveva ancora fatto i voti. Il permesso, il permesso: ma che c’entra il permesso con Dio? «Sono le regole del nostro fondatore». Magari il fondatore ha messo quelle regole perché viveva in un certo periodo storico: «La clausura è clausura sempre. Bisogna chiedere il permesso a chi sta sopra». E se quelli più in alto sbagliano? «Dio si serve di tutto, anche degli errori degli uomini per fare la Sua volontà». Ma perché accettare tutto, anche gli errori? Perché dipendere sempre da qualcuno? «Tutti noi dipendiamo da Dio». Da Dio, non dagli uomini. «La Chiesa è la sposa di Dio». E se la sposa sbaglia? «La sposa fa sempre ciò che desidera lo sposo». E se non lo fa? «Allora sarà lo Sposo ad agire, non noi», dice suor Francesca con indistruttibile calma mentre io mi accaloro e vorrei solo dirle: passività, accettazione, cieca obbedienza come ciechi sono i suoi occhi, cara sorella. «Se io sono chiamata da Dio, sono disposta a tutto», osserva, e intanto oltre la finestra la neve continua a cadere sul Vesuvio ma la piccola suora non la può vedere. «Se Dio mi chiama — conclude — io non devo dire no».

«Si fida così tanto di Dio?», chiedo. Lei mi guarda come se di colpo mi vedesse: «Io sono Sua». «Che cosa le ha tolto Dio?», insisto. «Tutto, dice lei, Non posso fare più niente. Se avessi potuto lavorare, se avessi potuto leggere, scrivere. Non posso fare niente». Guardo le foto ingiallite sul comodino spoglio, l’interfono che gracchia, il televisore spento, il girello per andare in bagno. Che cosa le ha dato Dio in cambio? «La serenità. Io accetto tutto dalle Sue mani». Tutta questa sofferenza, questa solitudine, passar intere giornate senza parlare con nessuno? «Tutto è permesso da Lui e io mi fido del mio Sposo. Se non hai la fede non puoi andare avanti». Chissà se Dio l’ha mai delusa: «Delusa? A me? Mai. Io so che questa è la vita nostra. Questa è la vita di un’anima che si è consacrata a Lui. Mi sono data a Gesù come quando una si sposa si dà veramente allo sposo e quello che vuole lui lo vuole pure lei».

«E la clausura non è stata una limitazione di quest’amore?». «Non era clausura, era amore per Dio». Dall’interfono una voce avvisa che una tal suora è attesa in infermeria. Riprendo: «Ne è valsa la pena?», domando alla piccola suora quasi centenaria: «Certo. Una volta – me lo ricordo come fosse adesso – sognai mamma che stava ai piedi del letto e sorrideva e io che ero piccolina le chiesi: “Mamma, Gesù è contento di me?”. Lei disse: “Sì, molto contento.” Spero che lo sia ancora».

Guardo la Madonnina e la foto dell’uomo dal volto gentile e della donna col velo. «Suor Francesca, qual è il suo ricordo più bello?». Sorride e nei suoi occhi ciechi vedo l’immagine di quel momento, l’immagine di una vita intera: «Il ricordo più bello è quando presi i voti solenni. Non quelli a 16 anni sotto condizione perché, non so se te l’ho detto, ma io dovevo morire e solo per l’intervento del Buon Dio mi sono salvata». Dio ci tiene molto a lei, le dico, ma non mi ascolta, immersa com’è in quel momento unico: «Ognuna di noi aveva un drappo nero con la croce bianca sopra; si chiamava il drappo mortuario. Quando si facevano i voti a un certo momento ci si prostrava tutte a terra, come fanno i sacerdoti quando vengono ordinati, e noi col viso a terra eravamo tutte coperte dal drappo nero con la croce bianca mentre una suora cantava la lezione da morto: “L’uomo è nato per morire”. In quel momento ciascuna di noi poteva chiedere qualsiasi grazia che il Signore concedeva». E «lei cosa chiese?». Come stupita da quella domanda mi guarda negli occhi: «Di vivere e morire come Sua sposa, di essere tutta Sua». Il 25 gennaio sono stati 75 anni di matrimonio con Cristo, le dico; allora sorride, io mi alzo e guardo un’ultima volta il Vesuvio innevato: un drappo nero con sopra una macchia bianca che da questa finestra sembra una croce. Le dico arrivederci e mentre torno nel mondo sento la sua voce piccina che dice: «Morire al mondo per vivere in Dio».

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