Opinioni | I pericoli della «non» crescita

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Crescita zero. Due parole che avrebbero fatto tremare ministri e partiti negli anni scorsi. Ma che fanno fatica a farsi largo tra le polemiche e il rumore di fondo di una politica fortemente impegnata da 33 anni a discutere dei suoi rapporti con la Giustizia: importanti certo, alla base dell’architettura istituzionale. Eppure, quella di un’economia stagnante è la prospettiva certificata dall’Istat. E se Christine Lagarde arriva a tagliare i tassi mentre l’America li tiene fermi e più alti, il campanello d’allarme avrebbe dovuto essere udito da tutti. Anche in Italia. La presidente della Bce ha parlato di una crescita europea orientata al ribasso. La nostra economia è fortemente integrata con quella dei partner europei e non solo. La schadenfreude, la parola che i tedeschi usano per il gioire delle sfortune degli altri ci danneggia e basta. Se si ferma la Germania, e si sta fermando, si ferma l’Europa e noi con essa.
Dall’altra parte dell’Atlantico, il gran parlare di dazi che dovrebbero partire stamattina per Canada, Messico e Cina, non fa altro che rendere le imprese, motore della crescita, ancora più guardinghe. E di questo non si potrà non tenere conto quando ci facciamo vanto del fatto che il nostro export ha superato persino quello dei campioni giapponesi.

È vero, l’America non potrà produrre da un giorno all’altro tutte le merci sulle quali Donald J. Trump ha minacciato di mettere una tassa, perché di questo si tratta quando parliamo di dazi. Anche perché significherebbe che quelle tariffe si trasmetteranno sui prezzi che i cittadini americani pagheranno sulle merci acquistate. Tradotto: l’inflazione, quel rialzo dei prezzi che ha danneggiato Biden e premiato Trump al voto americano potrebbe verificarsi ancora. Questo spingerà la Casa Bianca a una maggiore prudenza? Sembra di no.




















































Noi siamo legati al carro europeo. E faremmo bene a capirlo ogni volta che ne indeboliamo le politiche senza offrire alternative. Iniziamo a pensare anche noi: Europa First. Con un’Italia che oggi può e deve svolgere un ruolo fondamentale. Innanzitutto, crescendo. Essendone locomotiva economica potrà esserlo anche politica.
Il primato nell’export va difeso con tutte le nostre forze. Ma si deve comprendere anche che le imprese che ne sono protagoniste e che spesso realizzano il 70-80% di ricavi fuori dai confini italiani conoscono, per comparazione, pregi e difetti del produrre made in Italy. Dobbiamo evitare che assieme all’export anche gli investimenti si avviino a oltrepassare i confini.

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Contrariamente a quello che si pensa le imprese sono liquide, ma la loro liquidità rimane sui conti correnti. Transizione 5.0, le agevolazioni all’innovazione e al risparmio energetico, resta complicata. E troppo complicata e a troppe condizioni è stata legata l’Ires premiale; vale a dire quella tassazione più vantaggiosa riservata alle imprese che invece di distribuire dividendi ai soci lasciano in azienda i profitti sotto forma di investimenti e rafforzamento patrimoniale.

Le tanto agognate semplificazioni si sono compiutamente tradotte in realtà? Il grido di dolore delle aziende sull’energia è stato ascoltato? Secondo la Confindustria il prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso in Italia è maggiore di quasi il 40% rispetto alla Germania, oltre il 70% rispetto alla Spagna grazie alle rinnovabili e l’87% in più rispetto alla Francia che può disporre del nucleare.
Politica industriale non significa dire alle aziende che cosa devono fare, quanto creare le condizioni perché possano operare. E non si può dire che questa sia stata una delle priorità nazionali a tutti i livelli, governo ed enti locali. Ci siamo accontentati del dato sull’occupazione. Straordinario sicuramente. Ma abbiamo prestato pochissima attenzione al fatto che nella fascia che arriva fino ai 34 anni di età a essere aumentati sono stati gli inattivi non gli occupati.

Non possiamo pensare poi di intervenire solo sulle emergenze e sulle crisi. L’auto è l’emblema di un Paese che ha poca voglia di anticipare gli eventi. E non è questione di passaporti dei proprietari dei gruppi automobilistici. Eravamo il Paese dell’auto capace di produrre negli anni Novanta 2 milioni di vetture all’anno. Oggi galleggiamo sulle 500 mila. La Spagna è arrivata a produrne 2,6 milioni. Tutte di case non spagnole. Noi siamo qui ancora a chiederci se è giusto o meno produrre auto cinesi. Dimenticando che centinaia di migliaia di vetture prodotte significa anche allargare un indotto fatto di innovazione, tecnologia, piccole, medie aziende, professionisti, che arricchiscono territori e Paese.

Non possiamo accontentarci di non arretrare. Come notava ieri Ferruccio de Bortoli nella sua rubrica quotidiana Frammenti sul sito del Corriere, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) con la dotazione di oltre 200 miliardi, è nel pieno della sua attuazione. E se non ci fosse stato? E che cosa accadrà nel 2026 quando finirà l’onda lunga del piano?
L’argine sui conti pubblici ha retto e assieme alla stabilità politica ci ha garantito spread bassi e investimenti sui titoli pubblici italiani. Un risultato tanto importante quanto non scontato. Ma continuerà a reggere finché il Paese cresce. E lo sviluppo resterà in cima alle priorità. Cosa che è stata dimenticata da molti in queste settimane.

31 gennaio 2025

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