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La Casa Bianca fa pressioni, certo. Ma non ne ha bisogno: i leader europei già pensano a sacrificare almeno in parte il modello sociale europeo, sotto l’imperativo dell’aumento della spesa militare. Magari pure acquistando dagli Usa, come spingono Germania e Polonia (a dispetto di Macron) dal summit a Bruxelles. Il governo danese avvia pure la “tassa di guerra”

«Non comprano da noi, non prendono le nostre merci, è atroce quel che fanno gli europei». E ancora: «Nessuno è immune dai dazi». Così ha tuonato Donald Trump, lasciando poi filtrare alla stampa indiscrezioni su «dazi al dieci per cento per i beni provenienti dall’Ue», giusto per aggiungere altra pressione sull’incontro dei capi di stato e di governo europei, che nelle stesse ore discutevano se comprare armi dagli Usa, come i più vorrebbero, o dalle aziende Ue, come insiste la Francia che ha i suoi colossi industriali in campo.

Trump fa pressioni, certo. Ma su molti punti a dire il vero non ne ha neppure bisogno: e se in Ue i leader avessero già ipotizzato di sacrificare almeno in parte il modello sociale europeo tanto invidiato, sotto il peso dell’imperativo dell’aumento della spesa militare, magari pure acquistando dagli Usa? È proprio quel che sta accadendo, con un’aggravante non da poco: queste scelte compiacciono l’attuale inquilino della Casa Bianca, ma sono in preparazione già da parecchio tempo. La responsabilità resta in capo ai leader europei, per quanto gli Usa (e i dazi) facciano da innesco.

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La ritirata degli europei

Mentre Donald Trump preparava l’attacco – perché dopo Canada, Messico e Cina, l’Ue sarà «assolutamente» colpita dai dazi – intanto i capi di stato e di governo europei andavano in ritirata. Non è soltanto una questione di forma, anche se l’incontro di questo lunedì si presenta come un ritiro (un retreat, come recita la convocazione): da tempo il presidente del Consiglio europeo António Costa aveva previsto questo incontro informale, tenutosi in una dimora signorile brussellese, il palazzo d’Egmont, così da dare spazio ai leader per iniziare a sciogliere il nodo della difesa, in vista delle scadenze ufficiali (Consiglio europeo e vertice Nato) già calendarizzate per la fine giugno.

Ma qual è il nodo da sciogliere? Non l’aumento in sé delle spese degli europei per la difesa. Su questo non arrivano obiezioni da primi ministri e presidenti. Già sul finire del primo mandato di Ursula von der Leyen, sia la Commissione europea che forze politiche e governi avevano maturato una convergenza sull’idea che vada aumentato il contributo, sia in termini di finanziamenti Ue dedicati che di innalzamento del contributo all’alleanza atlantica. In tal senso, l’Ue era praticamente andata incontro a Trump prima ancora che lui arrivasse alla Casa Bianca. Considerato che già il 2 per cento del Pil come contributo è stato un passaggio complesso, neppure il segretario generale della Nato, Mark Rutte, è in grado di garantire che sùbito si raggiunga il 5 come nei desiderata statunitensi – «il livello esatto sarà deciso sulla base delle capacità» – ma è certo «sarà considerabilmente più alto del due per cento», scommette dal cortile del Palais d’Egmont, dove pure lui è arrivato questo lunedì per un pranzo coi suoi ex colleghi (Rutte era il frugale premier olandese prima di diventare il campione delle spese Nato).

Il punto non è quindi se «aumenteremo spesa e produzione per la difesa», ma come: con quali finanziamenti, e se comprando dagli americani stessi facendo questo ulteriore regalo a Trump; è su questi punti che c’è dibattito tra i leader.

Tra debiti e tasse di guerra

Giorgia Meloni ad esempio va dicendo pubblicamente da mesi che il tema dell’aumento della spesa per la difesa non la trova in disaccordo di per sé, ma che è difficile conciliarlo con gli attuali vincoli europei (tra Patto di stabilità e procedure per deficit eccessivo). L’istanza non ha avuto grande seguito al momento in cui è stato rivisto il Patto, ed è rimasta in sospeso la questione dell’indebitamento comune. Nonostante alcuni paesi nordici di tradizione frugale siano in questo caso d’accordo (Danimarca in testa), si è arrivati al “ritiro” di questo lunedì con l’ingombrante perplessità di Olaf Scholz, e quando c’è la Germania contro, di solito – come pure in questo caso – pure von der Leyen si blocca. Così l’indebitamento comune resta per ora in purgatorio. «Ma dovremo prevedere più finanziamenti europei nell’ambito del prossimo quadro finanziario», per dirla con Emmanuel Macron.

Cosa significhi tutto questo è stato scandito a chiare lettere da Rutte stesso a inizio 2025, con davanti a sé gli eurodeputati: «Se considerate che i paesi europei spendono facilmente fino a un quarto del loro reddito nazionale in pensioni, sanità e sistemi di sicurezza sociale… Bè ci serve solo una piccola parte di quel denaro per rendere la difesa molto più forte». Tirando le fila del ragionamento, per assecondare i piani dei leader europei e i desiderata di Washington, viene compromesso il vero tesoro europeo: il suo sistema sociale, unico e sul quale sorpassiamo gli Usa.

Tra i primi leader a sostenere questa svolta, già un anno fa c’era la socialista danese Mette Frederiksen, che a febbraio 2024 – con l’argomento della minaccia russa – si diceva pronta a sacrificare in parte il welfare (eccellenza scandinava) per le spese militari. Dopo le minacce di Trump sulla Groenlandia, siamo un passo oltre: Frederiksen ha concordato coi leader europei e con Rutte di disinnescare le tensioni garantendo agli Usa un maggiore impegno militare degli alleati nell’Artico. C’è di più: sotto la pressione emotiva generata dalla retorica imperialista trumpiana, il governo danese sta lavorando a una vera e propria tassa di guerra, per finanziare il riarmo.

Comprare americano

E mentre Macron insiste su una clausola di preferenza europea per le spese militari, con in mente il colosso Airbus gran beneficiario finora dei fondi europei, gli altri leader remano contro: «Le armi Usa e le migliori relazioni con gli Usa devono essere al centro della nostra attenzione», è esplicito Donald Tusk. Già i suoi predecessori del Pis avevano fatto incetta di acquisti militari dagli Usa, anche per garantirsi un salvacondotto politico. Come il premier polacco, pure Olaf Scholz, cancelliere tedesco, non ha obiezioni agli acquisti dagli Usa, specialmente ora che un impianto Patriot è stato stabilito proprio in Germania. E, anche su questo, dove va la Germania, von der Leyen segue.

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