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Il presidente Donald Trump riuscendo, almeno in partenza, nell’impresa di peggiorare la replica del suo primo mandato, sta facendo dell’attacco alle misure del Green Deal il perno della sua idea di rafforzamento dello sviluppo degli Usa. Anche in Italia – dove l’economia, in stagnazione, va peggio che negli Usa – si va facendo strada l’dea che, per rilanciare lo sviluppo, si debba smontare il Green Deal europeo: rinviare la decarbonizzazione delle auto, rivedendo sia i tagli alle emissioni sia la transizione all’auto elettrica; rallentare e diluire target e impegni di taglio delle emissioni di gas serra, a partire dai settori energivori; ridare mano più libera a un’agricoltura che non si curi della qualità ecologica dei terreni e dei territori delle coltivazioni; rilanciare un’edilizia senza vincoli di efficienza energetica; rallentare la transizione ad una maggiore circolarità perfino dove siamo più avanzati, nella gestione degli imballaggi. E via dicendo: l’elenco ormai è lungo.
Il fatto, noto e dimostrato da numeri difficilmente contestabili, che le misure del Green Deal dal 2019 in Europa – ma anche, successivamente, negli Usa e in Cina – siano state un motore di innovazione, di sviluppo di investimenti e di occupazione, pare non intaccare l’offensiva ideologica in corso. Nonostante la botta della pandemia del Covid, la spinta positiva del Green Deal stava riprendendo, quando l’invasione Russa dell’Ucraina ha fatto balzare in alto i prezzi dell’energia, specie del gas, alimentando una ripresa dell’inflazione e generando ripercussioni economiche pesanti in diversi Paesi europei, a partire dalla Germania. Imputare al Green Deal le recenti difficoltà economiche e industriali pare francamente poco sensato. Se, per fare un esempio, togliessimo dall’economia italiana i 122 miliardi ricevuti dalla UE per il PNRR – la principale misura del Green deal europeo – il 2024 si sarebbe chiuso in recessione invece che con una crescita, debole, dello 0,5%. I fondi del PNRR potevano essere usati meglio? Le riforme previste dovevano essere più incisive? Certamente, ma senza le risorse europee del Green Deal, l’andamento dell’economia italiana sarebbe stato certamente peggiore.
Nei cambiamenti di vasta portata è inevitabile che alcune attività economiche cessino, mentre altre si sviluppano, che si creino nuove opportunità per molti ma non contemporaneamente per tutti: non si può pretendere che anche i tacchini festeggino il Natale, né che il vasto mondo dei fossili sia contento per la decarbonizzazione. Cavalcare il malcontento, specie quando l’economia non va bene, è più facile – e a quanto pare anche elettoralmente più vantaggioso – che affrontare sfide impegnative, anche quando sono ineludibili e decisive per lo sviluppo, possibile solo quando i conti complessivi , dei benefici e dei costi necessari per ottenerli, sono positivi.
Oggi non è così perché alcuni conti, rilevanti per lo sviluppo, sono decisamente in rosso: quelli della crisi climatica e delle risorse naturali. La crisi climatica genera i costi, crescenti e ingenti, delle alluvioni, degli uragani, degli incendi devastanti, del calo delle produzioni agricole e della pesca, degli aumenti della spesa sanitaria, dei cali di produttività e dei forti aumenti dei consumi di energia per le elevate temperature. E non andrebbero trascurati anche i costi aggiuntivi, generati dai ritardi e dai mancati interventi per la decarbonizzazione. Nell’economia globalizzata, ad alto consumo di risorse naturali, la transizione da un modello di crescita lineare e dissipativo a uno circolare e rigenerativo che consenta un risparmio e un utilizzo prolungato ed efficiente delle risorse naturali limitate – altro pilastro, insieme alla decarbonizzazione, del Green Deal – è essenziale per la competitività economica e lo sviluppo.
In Europa abbiamo individuato ben 34 materie prime critiche, definite tali perché hanno un rischio elevato di perturbazione, con innalzamento anomalo dei costi, dell’approvvigionamento: molte di queste sono anche strategiche per il nostro sviluppo. Non è possibile restare fra le economie avanzate, tornando indietro. Nel mercato globale attuale un’economia avanzata può restare tale puntando su prodotti, processi produttivi, su filiere di bassa qualità ecologica, ad alto impatto climatico e sulle risorse naturali? Un’economia può restare avanzata trascurando il mantenimento dei servizi ecosistemici forniti dal capitale naturale? E quanto potrebbero essere avanzate e prosperare le imprese in un territorio devastato dalla crisi climatica ed ecologica? Puntare a eliminare la terapia -il Green Deal- perché comporta di dover bere qualche medicina amara, di convertire alcune produzioni, non è una soluzione, peggiora solo la malattia.
Per avere una ripresa economica, per avere uno sviluppo più robusto, stabile e durevole, in Europa abbiamo bisogno di più Green Deal e di un Green Deal più efficace, con più capacità di correggerne i punti deboli e di valorizzarne i vantaggi. A partire da quelli della transizione energetica, tagliando i costi, elevati, dell’energia fossile, sia con misure per migliorare, come è ancora possibile e conveniente, l’efficienza energetica degli usi civili, industriali e nella mobilità, sia con un forte, accelerato e praticabile nel breve termine, sviluppo delle fonti energetiche meno costose, più disponibili e pulite: quelle rinnovabili. E facendo del Green Deal una leva anche per la ripresa di un’industria in difficoltà. Sta di fatto che, dirigendo offensive ideologiche contro il Green Deal, si trascurano le misure, necessarie e possibili, per farne una leva più incisiva di rilancio industriale.
La seconda edizione di “Delivering on the European Green Deal Objectives: A Private Sector Perspective”, del World Economic Forum in collaborazione con Accenture, pubblicato nel gennaio 2025, propone interessanti spunti di riflessione per rendere più incisivo il Green Deal europeo, in particolare affrontando alcuni punti deboli: la complessità delle normative, gli oneri elevati di conformità, una rischiosa dipendenza dalle tecnologie rinnovabili importate, il basso livello della spesa in R&S, la lentezza nel rilascio dei permessi e i ritardi nei finanziamenti. “L’Europa dovrebbe stabilire obiettivi e strategie chiari – conclude l’analisi del WEF – per stimolare la domanda di prodotti sostenibili, sfruttare le politiche di approvvigionamento, semplificare la rendicontazione e allinearsi agli standard internazionali. Concentrarsi su queste priorità, non solo consentirà all’Europa di rispettare i propri impegni climatici, ma rafforzerà i fondamentali economici che sosterranno una maggiore produttività, una crescita e una prosperità durature”.
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