Per il suo secondo mandato come Presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen ha annunciato un piano che mantiene la linea sul Green Deal, l’iniziativa che ha lanciato con successo cinque anni fa. Con gran parte dell’agenda legislativa climatica 2030 ormai in vigore, i decisori politici si trovano di fronte a responsabilità complesse.
La prima priorità sarà mantenere il consenso sulla transizione mentre la decarbonizzazione viene attuata. Negli ultimi anni, la maggior parte delle riduzioni delle emissioni di gas serra (GHG) si è verificata nei settori ETS, principalmente nel settore energetico; al contrario, nei settori non-ETS, come i trasporti e gli edifici, le riduzioni sono state relativamente modeste e sull’agricoltura occorre ancora lavorare molto. La Commissione dovrà anche pensare alla legislazione post-2030 e fornire migliori orientamenti agli Stati membri sulle politiche di adattamento climatico: nonostante la loro dimensione locale sia indispensabile, queste ultime trarrebbero infatti beneficio da un ruolo più forte dell’Ue.
Una seconda priorità riguarda la creazione di un ecosistema industriale pulito e il conseguente adeguamento dei mercati interni ed esterni. Von der Leyen ha promesso un Clean Industrial Deal nei primi 100 giorni del suo mandato, che dovrebbe sostenere la competitività industriale europea anche attraverso un nuovo Fondo europeo per la competitività.
Terzo punto, gli investimenti: la decarbonizzazione impatterà progressivamente i settori dove il costo di abbattimento è più elevato, richiedendo maggiori risorse mentre la fine di Next-Generation EU si avvicina. Lavorare efficacemente su queste macro-priorità, tra tutto il resto, è ciò che farà o disfarà il Green Deal.
Rafforzare il consenso: la frammentazione non è un’opzione
Le circostanze politiche ed economiche in tutto il blocco sono diverse rispetto al precedente ciclo istituzionale. Negli ultimi tre anni, l’invasione russa dell’Ucraina ha portato a picchi dei prezzi dell’energia, colpendo cittadini e industrie in tutta l’Unione. L’alta inflazione, tornata solo recentemente al 2,3% nell’Eurozona, e la bassa crescita economica in tutta l’Ue hanno esasperato la popolazione, che in diversi casi ha incolpato “l’agenda verde di Bruxelles”, così come hanno fatto molti partiti populisti che hanno capitalizzato sulla frustrazione dei cittadini. Sicurezza e difesa hanno superato la crisi climatica come priorità per gli elettori, specialmente nell’Europa settentrionale e orientale, e la transizione è sempre più contestata nel momento in cui inizia a impattare cittadini e industrie. Diversi Stati membri hanno eletto governi di destra e/o nazionalisti (tra cui Paesi Bassi, Finlandia, Italia, Portogallo, Svezia, Slovacchia, e presto l’Austria, con Repubblica Ceca e Romania che probabilmente seguiranno a breve), alcuni dei quali mostrano atteggiamenti ostruzionistici verso il Green Deal. Francia e Germania – motori della politica e dell’integrazione Ue – sono più deboli che mai. Nel frattempo, il secondo mandato di Von der Leyen è ufficialmente iniziato: nella nuova configurazione della Commissione, la Presidente avrà probabilmente l’ultima parola sulle decisioni più importanti in materia industriale, climatica ed energetica data la maggiore frammentazione dei portafogli clima ed energia all’interno dell’esecutivo. Il tempo dirà se è una buona o cattiva notizia. Si spera che un futuro Pacchetto Energia per i Cittadini della Commissione aiuterà a coinvolgere e informare meglio la cittadinanza, plasmando un contratto sociale verde che possa meglio sostenere la transizione.
Il mondo stesso è molto diverso rispetto al 2019. La securitizzazione delle catene di approvvigionamento ha portato a una concorrenza più aspra e tensioni tra superpotenze (in particolare Cina e Usa), evidenziando le vulnerabilità dell’Europa. La rielezione di Trump e il suo approccio “America First” potrebbero costituire un ulteriore problema per l’Ue, che ha margini limitati per contrastare la visione di ‘dominio energetico’ del neopresidente ed evitare un crescente divario dei prezzi dell’energia tra Ue e Usa nel breve termine. L’Ue potrebbe anche dover far fronte a un rallentamento dei suoi sforzi di decarbonizzazione nel lungo termine come conseguenza della politica statunitense.
Il modo in cui il sistema internazionale si sta trasformando è difficile da cogliere interamente, inclusa la crescente sfiducia tra Nord e Sud globale, il multilateralismo sempre più sotto pressione e la maggiore influenza dei BRICS. Queste tensioni minacciano sia la competitività industriale dell’Europa e le sue ambizioni di leadership nelle tecnologie pulite sia il suo percorso verso la neutralità climatica. La crescente frammentazione a livello internazionale può portare a costi più elevati per l’accesso ai materiali a basse emissioni di carbonio o complicare l’attuazione di misure regolamentari chiave come il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM) o il Regolamento sui prodotti privi di deforestazione (EUDR), rallentando così la transizione. Con l’EUDR già in pericolo, l’attuazione del CBAM metterà alla prova la capacità dell’Ue di gestire le conseguenze internazionali delle sue misure climatiche. È quindi fondamentale che la frammentazione sia evitata almeno internamente, e che l’Ue rafforzi adeguatamente i suoi strumenti e istituzioni.
In tutto il mondo, misure come il CBAM sono state percepite in modo negativo – una tendenza che potrebbe alla fine alienare il consenso sulla transizione. I decisori dell’Ue dovranno quindi prestare maggiore attenzione a come le iniziative vengono percepite nei paesi terzi. Lo stesso vale per le catene di approvvigionamento delle tecnologie pulite, dove è essenziale che l’Ue si impegni di più con le economie emergenti e in via di sviluppo supportandole nel passaggio dall’estrazione ad attività a maggior valore aggiunto, al fine di creare opportunità economiche nei paesi partner. Costruire il consenso è più importante che mai: il nazionalismo crescente in tutto il mondo minaccia il successo dell’azione climatica e, unito alla disinformazione, crea ulteriore sfiducia e stallo in forum fondamentali come le COP.
Aumentare la competitività e costruire l’interdipendenza strategica
Il rapporto di Mario Draghi sul futuro della competitività dell’Ue – citato in tutte le lettere di missione ai Commissari che hanno ruoli chiave nell’avanzamento del Green Deal – chiarisce che decarbonizzare l’industria è essenziale per la prosperità dell’Europa. Il rapporto suggerisce di evitare un rimpatrio totale della produzione di tecnologie pulite (impossibile e troppo costoso), o affidarsi completamente a importazioni a basso costo; propone invece un approccio ‘mix and match’ a seconda del settore. L’Ue dovrebbe quindi considerare: quali sono i componenti di una catena di approvvigionamento pulita strategica; quali strumenti di integrazione interna e partnership esterne sono necessari; e come finanziare tutto ciò. Questo significa pensare strategicamente a dove l’Europa ha perso il suo vantaggio comparativo, cosa è cruciale per la sicurezza del blocco e quali sono le industrie nascenti da monitorare, per poi definire una combinazione di politiche commerciali e industriali che vanno dall’accettazione delle importazioni al reshoring/nearshoring di alcune catene di approvvigionamento fino all’impostazione di protezioni commerciali.
Elaborare la dimensione esterna della politica industriale dell’Ue è particolarmente delicato. La flessibilità qui è fondamentale. Da un lato i valori europei favoriscono un ambiente internazionale aperto. Dall’altro, il blocco deve rafforzare la sua capacità di adattarsi agli shock esterni, siano essi politici (come sanzioni, manipolazioni delle forniture), economici (per esempio, volatilità dei prezzi, barriere commerciali), ambientali (disastri naturali), industriali (bassi investimenti pubblici e privati), sociali (tendenze demografiche, resistenza alle infrastrutture, mancanza di competenze), o tecnologici (innovazioni dirompenti). Questa matrice non esaustiva di potenziali shock esterni si applicherebbe in modo diverso alle diverse tecnologie o materiali necessari all’Ue: CRM, fotovoltaico, eolico, elettrolizzatori, batterie, pompe di calore, e altro ancora, complicando ulteriormente il quadro.
Un’altra ragione dietro l’attuale gap competitivo di cui risente l’Ue è legata agli alti prezzi dell’energia. La povertà energetica è ancora una preoccupazione significativa in Europa, peggiorata dalla crisi e che colpisce in modo sproporzionato i consumatori vulnerabili. Il rapporto Draghi sottolinea la necessità di frenare la volatilità dei prezzi del gas per ridurre la bolletta energetica sia delle aziende europee che dei consumatori (ma soprattutto per le industrie ad alta intensità energetica). Secondo il rapporto, l’Ue dovrebbe anche rafforzare le sue attività di acquisto congiunto di gas per fare il miglior uso del suo potere contrattuale collettivo e ridurre la propria esposizione ai prezzi volatili spot. Molte delle soluzioni proposte sul mercato del gas e dell’elettricità sono state tuttavia già discusse: ad esempio, il sistema di prezzi marginali e alcuni dossier sono stati recentemente concordati, come il design del mercato elettrico. È quindi improbabile che vengano rinegoziati nel breve termine.
Data la mancanza di idrocarburi dell’Europa, a differenza degli Usa, abbassare i prezzi dell’energia dipende anche dall’avanzamento della transizione. L’Ue e le capitali in tutto il blocco dovranno lavorare sui flussi rimanenti di importazioni russe. La sicurezza energetica tradizionale rimarrà una forte preoccupazione nel 2025: le importazioni dai paesi MENA hanno subito interruzioni nel 2024 a causa di problemi infrastrutturali e tensioni politiche. In particolare, la crisi in Medio Oriente dopo il 7 ottobre 2023 ha influenzato il commercio globale di gas naturale liquefatto (GNL), specialmente le esportazioni del Qatar verso l’Europa. La sicurezza energetica è infatti in cima all’agenda politica della Polonia, che ha assunto la presidenza del Consiglio Ue il 1° gennaio.
Investimenti all’altezza della sfida
Non è un mistero che ampliare l’utilizzo delle rinnovabili significhi un aumento di batterie, reti e soluzioni digitali; che i veicoli elettrici richiedano infrastrutture di ricarica o che le case necessitino di ristrutturazione – e l’elenco potrebbe continuare. Con la conclusione dei finanziamenti post-Covid di NGEU, l’Ue dovrà trovare un’altra soluzione. Se il blocco riuscirà ad avere il consenso politico per creare un tale piano strutturato di investimenti rimane un grande punto interrogativo. Il rapporto Draghi stesso chiede un’enorme spinta agli investimenti (circa 750-800 miliardi di euro all’anno per tenere il passo con i concorrenti) insieme a riforme nei settori chiave e una maggiore integrazione europea per la decarbonizzazione dell’industria. I fondi per impegnarsi in una transizione giusta esternamente – attraverso finanza climatica e meccanismi di compensazione – sono altrettanto vitali.
Si spera che nel ciclo istituzionale 2024-2029 ci saranno un’attuazione e un avanzamento rapidi e ordinati del Green Deal. Tuttavia, date le circostanze attuali, ci si deve aspettare un approccio “pragmatico” da parte della Commissione, del Parlamento e degli Stati membri, dove potrebbero verificarsi alcuni ritardi nell’attuazione del piano o potrebbero essere fatti alcuni passi indietro tattici per evitare un’opposizione radicalizzata. Tale scenario permetterebbe di attenersi agli obiettivi fondamentali e stanziare abbastanza denaro per accompagnare la transizione verde nei settori che ne hanno più bisogno, ma potrebbe anche determinare un’attuazione più lenta. Uno scenario più preoccupante sarebbe un chiaro annacquamento degli atti di esecuzione per la legislazione 2030 e la mancanza di una sua corretta applicazione, insieme all’assenza di progressi sulla legislazione post-2030.
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