(Teleborsa) – Nuove precisazioni da Generali in merito all’operazione annunciata lo scorso 21 gennaio, che prevede la definizione di una partnership nell’asset management con Natixis Investment Managers (NIM) e la sua controllante (il Groupe des Banques Populaires et des Caisses d’Epargne, BPCE), che “è stata oggetto di molta attenzione da parte della stampa e del mercato”, si legge in una nota.
Viene ricordato che la nuova società metterebbe assieme le attività di asset management facenti capo, rispettivamente, a Generali Investments Holding e a NIM, portando alla creazione di un operatore globale da 1.900 miliardi di euro di masse gestite, al nono posto a livello mondiale e leader nell’asset management in Europa con 4,1 miliardi di ricavi. La società risultante dall’aggregazione sarebbe controllata in modo condiviso dalle due istituzioni finanziarie – ciascuna con una quota del 50% – operando con una struttura di governance congiunta e secondo criteri paritetici di rappresentanza e controllo. Generali Investments Holding apporterebbe oltre 600 miliardi in asset, mentre il contributo di BPCE, tramite NIM, sarebbe di 1.300 miliardi.
Il Consiglio di amministrazione della nuova entità sarebbe composto da un egual numero di consiglieri designati da Generali Investments Holding e NIM (ovvero 6 membri designati da ciascuno socio), integrati da tre consiglieri indipendenti individuati congiuntamente dalle stesse Generali Investments Holding e NIM, oltre che dal CEO della joint venture. La nuova entità verrebbe costituita ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, come soluzione neutrale tra i due soci basati in Paesi diversi. Italia, Francia e Stati Uniti rimarrebbero gli hub operativi della nuova società, dai quali si continuerebbe a gestire direttamente le attività di business.
Generali evidenzia che la joint venture sarebbe posizionata al meglio per espandere ulteriormente l’attività per clienti terzi, anche grazie all’impegno di Generali ad apportare, nel corso dei primi cinque anni, un totale di 15 miliardi di capitale di avviamento, cosiddetto Seed money, per l’avvio di nuove iniziative e strategie di investimento nel settore degli investimenti alternativi (e in particolare nei private markets). Il Seed money consiste nella sottoscrizione di fondi e mandati d’investimento, regolamentati e coerenti con l’asset allocation definita autonomamente da Generali, e non in capitale di rischio per finanziare le società operative di asset management.
Non si tratta di una novità per Generali: già oggi il Gruppo ha una politica di seeding che prevede l’investimento del proprio attivo di bilancio rappresentato dai portafogli assicurativi per il lancio di nuove strategie ritenute meritevoli e coerenti con gli obiettivi di allocazione dei portafogli assicurativi del Gruppo. Ad oggi, il Seed money di Generali ammonta a circa 20 miliardi, e ne sono già previsti circa € 5 miliardi nel 2025 a prescindere dalla operazione con NIM. Ogni anno i portafogli assicurativi di Generali generano circa 25 miliardi di flussi di cassa tra rimborsi di titoli in scadenza, cedole e dividendi che vengono reinvestiti nelle diverse classi di attivo. In aggiunta, Generali ha un target triennale (da piano 2025-2027) di raccolta netta sui prodotti assicurativi Vita pari a 25 – 30 miliardi. “È quindi evidente che l’impegno di 15 miliardi cumulati su 5 anni rappresenti una quota minoritaria sia delle masse complessive gestite che dei flussi di reinvestimenti annui di Generali”, viene sottolineato.
Premesso che, ad oggi, le masse in gestioni afferenti alle compagnie e a clientela italiana del Gruppo Generali rappresentano circa il 30% delle masse totali gestite da Generali Investments Holding, la nascita della joint venture “non avrebbe alcuna ripercussione sulla continuità delle politiche di gestione del risparmio affidato dagli italiani alle compagnie del Gruppo, che rimangono proprietarie degli attivi e ne decidono l’allocazione tra le diverse strategie di investimento”, si legge nel documento.
La procedura di definizione degli investimenti adottata dal Gruppo Generali prevede infatti che siano la capogruppo e il suo CdA a definire le linee guida strategiche di investimento dell’intero Gruppo (mentre le singole compagnie assicurative con i rispettivi CdA definiscono la propria strategia coerentemente con quella complessiva del Gruppo), inclusa l’assegnazione dei mandati di gestione che contengono limiti di rischio e obiettivi ben definiti cui si deve attenere il gestore, come l’indicazione dei paesi, delle classi di attivi o, ad esempio, dei titoli di stato nei quali allocare gli investimenti. A titolo esemplificativo, è la compagnia di assicurazione a decidere quale è l’allocazione voluta in Titoli di Stato e la rispettiva quota da ripartire tra i vari paesi, dandone specifica indicazione alla società di gestione che rimane vincolata a questa scelta. Alla luce di ciò, “l’operazione con BPCE non avrà alcun impatto sulla allocazione quanto ai BTP del Gruppo Generali”, viene sottolineato.
Inoltre, sotto il profilo fiscale non si determinerebbe alcun trasferimento di valore fuori dall’Italia e non si avrebbe, come effetto, una riduzione delle imposte assolte in Italia. È anzi plausibile che l’onere fiscale italiano aumenti, quantomeno per effetto di due fattori: la creazione di un altro livello nella catena societaria in Italia, con conseguente ulteriore tassazione dei dividendi; l’aumento dei dividendi previsti per Generali per effetto della creazione di valore generato dalla joint venture.
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