Questo non è un gran editoriale, ve lo dico subito. Forse non è proprio per niente un editoriale, ma non posso farci molto, perché quando Emilio mi ha detto, durante la riunione del comitato di redazione di Billy, che sembrava che David Lynch fosse morto, ho avvertito, mentre i suoi occhi tremavano, il rumore di un nastro magnetico che ripartiva dall’inizio, come fosse una torsione sbagliata del tempo. E, allora, se anche cercavo conferme sui social, mentre Los Angeles bruciava, sentivo che era inutile, perché sapevo già che era vero, perché la torsione c’era stata e persino il ronzio, come confermavano anche i messaggi che ricevevo dal mio mondo privato.
Però è un’altra la questione, anzi sono altre, sono diverse, perché ho una lunga storia da raccontare. Cioè è chiaro che il numero di febbraio di BILLY non potrà che essere dedicato a lui, ma mentre torno a casa, dopo la riunione, mentre sono a casa, è come se avessi aperto una scatola blu, dentro la quale a un certo punto qualcuno al citofono mi dicesse: «David Lynch è morto», come in una eco distorta di un’altra morte, quella di Dick Laurent — D.L., le stesse iniziali. Mi perdonerete.
C’è sicuramente un mondo che si è ripiegato su stesso, forse più di uno, quando qualcuno ha detto che David Lynch era morto. Ma che mondo è, mi chiedo: è il cinema, è la critica, sono le previsioni del tempo, è l’arte pittorica, è la meditazione? O forse è il mio, invece, di mondo, a torcersi come il tempo, visto che non è un sogno, e nemmeno lo sembra. Ciò che resta è un ronzio di silenzio che si trasforma in un brusio elettrico famigliare, quello che ha spesso pavimentato le opere di David Lynch, quel rumore bianco che, per me, è il suono dell’inquietudine.
Forse non ci crederete — e probabilmente non è neppure vero, eppure così dice la scatola blu — ma è lo stesso ronzio che sentivamo durante le notti dei cineforum clandestini al centro giovanile Lo Specchio, quando il vecchio videoregistratore di Ivan lottava per leggere le VHS consunte con dentro The Alphabet e The Grandmother, i primi, allora introvabili, cortometraggi di Lynch. E mentre quelle immagini passavano sullo schermo come messaggi in codice da un altro mondo, noi eravamo troppo giovani, forse, e cercavamo padri ovunque. Il mio non c’era, sfocato come i personaggi che popolavano questi primi esperimenti lynchiani. Ma lì, nel buio di quella sala improvvisata degli anni Novanta, qualcuno, finalmente un altro padre, ci diceva che le famiglie fanno schifo e che il perturbante si nasconde sempre nelle pieghe del quotidiano, come un insetto che striscia dietro il radiatore. Non era solo e non era tanto cinema sperimentale: era la dimostrazione che sotto la superficie levigata della normalità si cela un abisso. Non era Lynch che imitava la vita: era la vita che si rivelava irrimediabilmente lynchiana.
Quindi, presto, dopo, il cinema di Lynch è allora diventato il limine (o in limine) della realtà: Lynch mi ha mostrato cosa si nasconde sotto la superficie levigata della normalità. Non era più solo la città di Velluto blu o, più tardi, le strade perdute che portano a Mulholland Drive: era la mia città, erano le case ordinate con i loro giardini curati, erano i sorrisi di circostanza che mascheravano abissi. Lynch mi ha instillato che il perturbante non è l’eccezione, è la regola; non è il mostro sotto il letto, è il letto stesso, è la camera, è la casa, è tutto ciò che diamo per scontato.
Di più. C’è stata una generazione — la mia, ma vale per tutte le generazioni — che ha scoperto, attraverso Twin Peaks, che Laura Palmer l’abbiamo uccisa tutti, ogni volta che abbiamo distolto lo sguardo, ogni volta che abbiamo preferito il comodo velo della consuetudine. Perché Twin Peaks non era una città in America, era ogni città, ogni comunità che preferisce l’ipocrisia alla verità. Perché il male non è mai altrove, germina sempre nel cuore pulsante della normalità borghese. Avevamo diciotto anni e Lynch ci mostrava che il verminaio di squallore non era un’anomalia: era il substrato stesso della realtà, come un formicaio brulicante sotto il prato perfettamente curato.
Ecco allora che oggi, guardando dentro la scatola blu, oggi che «no hay banda», scopro ancora che il ronzio elettrico che pervade i suoi film non è un effetto sonoro: è la frequenza nascosta dell’esistenza che la maggior parte di noi sceglie di non sentire. Lynch non protegge dall’oscurità ma affila i nostri sensi per percepirla, e non per superarla, io credo, — ché sarebbe una consolazione troppo facile, troppo americana — ma per riconoscerla come la vera sostanza dell’essere.
È un padre, David Lynch, che ci ha marchiato a fuoco: l’impossibilità di essere realmente (da res, «cosa») vivi. Mulholland Drive non era solo un film, posto che lo fosse, sulla morte del sogno hollywoodiano: era la radiografia della nostra condizione, sospesi tra una vita sognata e una morte vissuta, tra il Club Silencio e il silenzio che ci abita. Oggi il perturbante che Lynch ci ha rivelato continua a pulsare sotto la pelle di ogni cosa. Lynch non ci ha insegnato a sognare, ci ha mostrato che la realtà è sempre più allucinata di qualsiasi sogno, più profonda di qualsiasi incubo, più disturbante di qualsiasi risveglio.
Così BILLY diventa, per febbraio, un omaggio a David Lynch, oltre che un viaggio verso l’Oscar, dentro la Berlinale e all’interno delle cose davvero belle che succedono in questa città. E mentre scrivo è come se il tempo si torcesse di nuovo, dentro la scatola blu, mentre torno a casa dalla riunione, mentre suono al citofono di casa mia e, ovviamente, sono io a dire a me stesso che David Lynch è morto.
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