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La previdenza pubblica italiana traballa, ma non crolla; anzi, per il momento sembra proprio reggere. Merito, in estrema sintesi, della netta risalita del tasso di occupazione italiano, che nel 2022 è arrivato alla percentuale record del 62% (pur restando tra i più bassi d’Europa) e dell’effetto delle diverse riforme che hanno gradualmente innalzato i requisiti anagrafici e i contributi.

A dirlo è il dodicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, presentato lo scorso 15 gennaio alla Camera dei Deputati. Di seguito i punti principali.

Pensionati e prestazioni

Lo studio rivela che dopo un trend positivo avviatosi nel 2009 e proseguito in modo costante fino al 2018 per effetto delle ultime riforme previdenziali, il numero di pensionati italiani si mostra di nuovo in risalita: i percettori di assegno pensionistico sono 16,23 milioni a fine 2023, a fronte dei 16,13 milioni del 2022 e dei 16 milioni del 2018, anno in cui si era toccato il valore più basso di sempre.

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“Un incremento ascrivibile – si legge nel Rapporto – alle molteplici vie d’uscita in deroga alla Fornero introdotte dal 2014 in poi e culminate negli ultimi anni con l’approvazione dapprima di Quota 100 nel 2019 e, quindi a seguire, di Quota 102 e Quota 103”.

Si scopre così che su 3,63 residenti italiani almeno uno è pensionato, dato obiettivamente molto elevato se si tiene conto che il picco dell’invecchiamento della nostra popolazione verrà toccato nel 2045.

Venendo poi al numero di prestazioni pensionistiche, al 2023 ne risultano in pagamento 22,92 milioni, 140mila in più rispetto al 2022.

Occupazione

Dopo il difficile biennio 2020-2021, caratterizzato dalla crisi Covid e dagli effetti sul mercato del lavoro delle misure di contenimento dei contagi, è proseguita anche nel 2023 la crescita del numero di occupati, risalito fino a circa 23,75 milioni di unità, valore nettamente superiore a quello pre-pandemico.

Tuttavia, con oltre due milioni di NEET (giovani tra i 15 e 29 anni che non studiano né lavorano) e solo poco più di 23,7 milioni di lavoratori su una popolazione in età da lavoro di circa 38 milioni di individui, l’Italia si conferma tra le nazioni peggiori in Europa sul fronte occupazionale.

Secondo i dati Eurostat riferiti al 2023, infatti, il nostro Paese è all’ultimo posto per occupazione globale, distante di 9 punti percentuali dalla media europea. Male anche l’occupazione femminile (52,5% contro il 65,7% della media europea) e quella giovanile (15-24 anni), in cui l’Italia è quart’ultima tra i 27 Paesi UE (20,4% contro una media del 35,2%).

Rapporto attivi/pensionati da record, ma non sufficiente

Nonostante l’incremento del numero di pensionati con il miglioramento della situazione occupazionale si attesta a 1,4636 il rapporto attivi/pensionati, valore fondamentale per la tenuta di un sistema pensionistico a ripartizione come quello italiano. Si tratta del miglior dato di sempre tra quelli registrati dal Rapporto, benché ancora al di sotto di quell’1,5 già indicato nelle precedenti pubblicazioni come soglia minima necessaria per la stabilità di medio-lungo termine della nostra previdenza obbligatoria.

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Su questo fronte, le previsioni degli analisti di Itinerari Previdenziali parlano di un “ulteriore lento ma progressivo miglioramento”. Tuttavia, affinché queste stime si concretizzino, “sarà necessario investire in politiche industriali che rilancino la stagnante produttività del Paese, capitalizzando le risorse del PNRR, migliorare quelle attive per il lavoro, e infine tenere sotto controllo le uscite anticipate, garantendo la sostenibilità del sistema anche ai più giovani”.

Le nostre pensioni sono al sicuro?

“Volendo trarre qualche conclusione, malgrado i molti catastrofisti, a oggi il sistema è sostenibile e lo sarà anche tra 10-15 anni, nel 2035/40, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal Dopoguerra al 1980 – in termini previdenziali assai significativi data la loro numerosità – si saranno pensionati”, spiega Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, che precisa: “Perché si mantenga questo sottile equilibrio, sarà però indispensabile intervenire in maniera stabile e duratura, tenendo conto di alcuni principi fondamentali, tra cui l’adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita, la limitazione alle numerose forme di anticipazione oggi previste e il blocco dell’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, e di prevedere un superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età”.

Il peso delle prestazioni assistenziali

Se dal lato puramente pensionistico, le notizie sembrano essere tutto sommato positive, la spesa assistenziale sembra essere la vera palla al piede del bilancio dello Stato.

Secondo il Rapporto, infatti, nel 2023 l’Italia ha complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 583,712 miliardi di euro, con un incremento del 4,32% rispetto all’anno precedente (24,2 miliardi): la spesa per prestazioni sociali ha assorbito oltre la metà di quella pubblica totale, il 50,93%.

Rispetto al 2012, dunque nell’arco di poco più di un decennio, la spesa per welfare è aumentata di 151,5 miliardi strutturali (+35%); aumento ascrivibile soprattutto agli oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, cresciuti del 137,2% (+78 miliardi) a fronte dei “soli” 56 miliardi della spesa previdenziale (+26,5%) e del 29,3% del nostro Prodotto interno lordo.

I pensionati totalmente o parzialmente assistiti sono dunque 6,56 milioni, vale a dire il 40,4% del totale, stima che oltretutto appare in difetto agli autori del Rapporto. “Dovrebbe quantomeno far riflettere il fatto che un Paese del G7 come l’Italia abbia erogato forme di assistenza al 40% dei suoi pensionati”, commenta ancora Alberto Brambilla, nel ricordare che “oltretutto, a differenza delle pensioni finanziate dai contributi sociali, questi trattamenti gravano del tutto sulla fiscalità generale, senza neppure essere soggetti a tassazione”.

Insomma, come già accaduto in passato, quello tracciato da Itinerari Previdenziali è un quadro che richiama l’attenzione sulla necessità di separare previdenza e assistenza, contenendo maggiormente quest’ultima.

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L’autore o gli autori non possiedono posizioni nei titoli menzionati in questo articolo. Leggi la policy editoriale di Morningstar.



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