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La prassi dell’eversione per bocca governativa, a Washington come a Roma, proclama sempre: si fa così perché decidiamo che si può fare e lo decidiamo noi perché comandiamo. Ma eversione rimane

Trump ha annunciato, tra la firma di un ordine esecutivo e un altro, che Guantanamo sarà riconvertita in campo di detenzione di migranti e che l’obiettivo è rinchiuderne almeno trentamila. Non sfugge a nessuno il carico simbolico di una tale decisione: Guantanamo non è una prigione come le altre. Il fatto che persone che non hanno commesso alcun reato possano finire rinchiuse in una galera non è una novità: anche da noi l’introduzione del dispositivo della “detenzione amministrativa” ha ormai una lunga storia, e purtroppo, nuove e più tragiche prassi di consolidamento.

“cpr”, centri per il rimpatrio, altro non sono che campi di detenzione su base etnica, gestiti però fuori dal classico circuito carcerario, con tutto quello che significa. Il fatto che siano dedicati a persone che non hanno commesso alcun reato, li colloca nel limbo delle anomalie giuridiche. La nostra Costituzione, ma anche il diritto internazionale, vietano questo tipo di sistemi. Per questo si sono introdotte categorie legislative ambigue, adatte a far rientrare ciò che è palesemente in contrasto con i principi e i valori dai quali deriva la fonte di legittimazione di norme fondamentali di una democrazia. Rinchiudere esseri umani, privarli della libertà, senza che abbiano commesso alcun reato, non può ricadere nella normale prassi giudiziaria e penale.

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Di cosa può essere accusata una persona che tenta di muoversi da un luogo e di raggiungerne un altro, per motivi di forza maggiore? Forse di non avere avuto il permesso preventivo di farlo, ma certo metterla in galera per questo fino ad un anno e mezzo, non è normale: se il permesso preventivo non è accessibile in nessun modo, cioè se il presupposto di legalità non è violato, ma semplicemente non praticabile, né con passaporti che non si posseggono o sono limitati all’ingresso in pochissimi e remoti paesi, né con visti che non si possono chiedere in nessuna ambasciata, se essa esiste, dovrebbe in teoria valere il fatto che un soggetto non ha volutamente infranto una qualche legalità, perché essa semplicemente non ha modo di concretizzarsi in alcuna forma possibile. La detenzione amministrativa quindi, ha dovuto ricorrere all’inganno legale della “necessità di identificazione”. Ti privo della libertà, ti concentro dentro un campo, per poter sapere chi sei. E’ chiaro che non sta in piedi la storia che per identificare una persona servano lunghi periodi di trattenimento.

Un altro ostacolo sulla strada dei centri di detenzione è il diritto a chiedere asilo: le “procedure accelerate di frontiera”, quelle che servono a giustificare le deportazioni in Albania ad esempio, sono un altro dei modi legali per aggirare il principio e la sostanza di quello che la Arendt definisce come “il diritto ad avere diritti”. E poi “l’esigenza di rimpatrio”, sempre di persone, esseri umani, che non hanno commesso alcun reato, completa il quadro della giustificazione legalitaria dell’anomalia giuridica e costituzionale. Il tema dei “paesi sicuri” fa da paravento non solo alla selezione, vietata da Costituzione e convenzioni internazionali, su chi ha diritto e chi no, sulla base della propria provenienza. Il famoso “diritto soggettivo perfetto”, che sta alla base del divieto a compiere respingimenti di massa seguendo criteri di generalizzazione a dir poco inquietanti, è cancellato.

Questi centri di detenzione insomma, non possono che essere “zone extragiudiziali”, che introducono, per mezzo di leggi ordinarie, una nuova costituzione materiale, che prima o poi chiederà di essere ascritta anche a quella formale. E’ l’azione di “eversione dall’alto” la cifra che l’élite formata da oligarchi e nuova destra, si è data per “cambiare la Storia”, come dicono Meloni, Milei e Trump. La forzatura per cambiare le costituzioni repubblicane della seconda metà del 900, che poggiano su una impalcatura valoriale che chiamiamo “civiltà giuridica”, è fatta con prassi e metodo. La prassi anticipa ogni discorso: si fa così perché decidiamo che si può fare, e lo decidiamo noi perché comandiamo. La recente vicenda del torturatore Almasri e della sua fuga organizzata dalle autorità, ha messo in luce la teoria della “ragion di Stato”.

Lungi dall’essere quel complesso equilibrio tra la necessità di scelte difficili quando si governa un paese e limiti imposti dalla democrazia, la “ragion di Stato” è stata descritta a reti unificate, come l’impunità totale per i crimini commessi dai potenti. “Fanno tutti così” è il massimo della raffinatezza raggiunta per cercare di giustificare colpi di stato, stragi, violazione sistematica dei diritti umani e qualsiasi nefandezza possiamo immaginare. Se compiuta in nome dello Stato, ogni cosa si può fare, secondo la nuova dottrina Vespa, con buona pace dei padri e delle madri dei compianti sistemi democratici che si contrappongono a quelli incivili e autoritari. Come per lo stravolgimento delle convenzioni internazionali che regolano l’obbligo del soccorso in mare, anche questa parte della guerra ai migranti (che alla fine appartengono ad una categoria universale, i poveri ) cancella ciò che davamo per scontato, come il fatto che non si possono detenere le persone solo perché provengono da un alto paese e noi rifiutiamo di accoglierli.

Anche la gestione di queste detenzioni legali ma illegittime, è parte del limbo nel quale cadono le prassi e i metodi messi in campo dalla “eversione dall’alto”: le inchieste per la somministrazione forzata di psicofarmaci ai detenuti, i pestaggi, le forme di tortura, la somministrazione di cibo scaduto, l’assenza dei servizi igienici minimi, si moltiplicano. Questi luoghi non sono carceri e nemmeno campi profughi di accoglienza e di emergenza. Sono qualcos’altro, Guantanamo, è sempre stata qualcosa di più, di più e di diverso da una vecchia base navale di un avamposto americano in terra straniera. Guantanamo, definita da più parti un “buco nero legale”, è servita a detenere, torturare e in qualche caso uccidere persone ritenute coinvolte nel terrorismo islamico, ma mai formalmente né imputate, né processate. Per poterlo fare, gli Stati Uniti, in nome della “ragion di Stato”, non hanno attribuito a questi prigionieri, circa 800 nel corso degli anni, lo status di “prigioniero di guerra”, che altrimenti avrebbe comportato l’obbligo di applicazione della Convenzione di Ginevra.

I detenuti sono stati inquadrati come “combattenti nemici illegali”, una definizione che non esiste nell’ordinamento giuridico americano, ma proprio per questa non appartenenza a nessuna categoria possibile per il diritto, hanno subito le violenze più indicibili. Il loro stesso arresto, spesso avvenuto in giro per il mondo grazie a “extraordinary rendition”, veri e propri rapimenti (il caso Abu Omar a Milano sia di indicazione), non ha una ragione legale. Nell’ambito della “war on terror”, successiva all’11 settembre del 2001, chi comandava ha deciso che si poteva fare, anche se nessuna legge e nessun principio democratico, lo avrebbe mai acconsentito. In fondo quello che fanno dittatori e autocrati nell’altra metà del mondo. Non è un caso dunque, se oltre ad interrompere il piano di smantellamento di Guantanamo, (che, per inciso, secondo il Congresso americano, “non ha portato alcun beneficio alla sicurezza nazionale e nella lotta al terrorismo”), firmato già nel 2009 da Obama, Trump abbia scelto proprio questo inferno, simbolico e concreto, per aggiungere un nuovo capitolo alla sua feroce guerra contro i più poveri.

Guantanamo informa di sé coloro che verranno deportati lì dentro. Cosa sono? Detenuti? E per quale reato? La nuova dicitura sarà “nemici illegali”, o “criminali” come già ora il Tycoon con il parrucchino giallo, chiama donne, uomini e bambini che sfilano incatenati. Nel suo annuncio, coloro che non perdono occasione per sottolineare il “pragmatismo” del personaggio, “certo un po’ eccentrico ma sappiamo che è il suo modo di fare”, ci vedono la “trovata” della “deterrenza”, giocata in nome del governo dei flussi migratori fuori controllo. Parole che abbiamo già sentito dalle nostre parti, prima a Cutro, con la strage in mare che doveva trasformarsi in “un messaggio perché non partano”, e poi con il campo di detenzione in Albania. L’eversione dall’alto di quelli che vogliono “rifare la Storia”, in fondo usa metodi antichi: puoi anche arrivare su Marte, ma se poi ci costruisci un campo di concentramento per poveri, non sei un genio, ma solo un pericolo per l’umanità.

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