Tutti i leader dell’Unione europea invocano «l’unità» per affrontare al meglio la doppia offensiva di Donald Trump su dazi e aumento delle spese militari. Ma come si è visto anche nel Consiglio europeo informale di lunedì 3 febbraio, le divisioni tra i 27 Paesi sono ancora profonde. In queste condizioni, l’unità, intesa come allineamento di politiche e di interessi, è fuori portata. Si può lavorare, invece, per raggiungere una difficile sintesi, un faticoso compromesso. Il problema di fondo è che si sono formati, in verità ormai da tempo, due schieramenti diversi e non sovrapponibili sui temi delle tariffe doganali e della difesa.
Partiamo dal primo dossier: il surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti. I Paesi più esposti alle minacce di Donald Trump sono tre, come documentano i dati 2024 dell’Us Census bureau: Irlanda (avanzo di 80 miliardi di dollari); Germania (76,3 miliardi); Italia (39,6 miliardi). Non sorprende, quindi, trovare tra i più convinti fautori del dialogo serrato con Trump il primo ministro irlandese Micheál Martin e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Al loro fianco, però, si stanno muovendo anche Stati meno investiti dall’ondata trumpiana, come Polonia, Finlandia, Lettonia, Estonia e Lituania. Un discorso a parte merita la Germania.
Il cancelliere Olaf Scholz chiede «una reazione decisa» e, in parallelo, di trattare con Washington. Più o meno sulla stessa linea si colloca il leader della Cdu, Friedrich Merz, il probabile vincitore delle elezioni in programma il 23 febbraio. Fino a quel giorno l’incognita tedesca peserà su tutte le analisi. Sul dossier militare, invece, le squadre cambiano vistosamente. Come rispondere all’ingiunzione americana: più soldi per l’esercito e le armi? Non il 5% del pil, incompatibile anche con il bilancio Usa; piuttosto il 3-3,5%. Il governo italiano ha già fatto sapere che al massimo può raggiungere il 2%. Roma può contare su Madrid, in qualche misura su Parigi e poco altro. Ecco allora che gli Stati sponda sui dazi si trasformano in interlocutori scorbutici: la Polonia di Donald Tusk, i baltici, la Finlandia.
L’attacco a tutto campo di Trump costringe gli europei a mescolare gli argomenti. Le alleanze variabili sono gestibili se si affronta una questione alla volta. Altrimenti generano proposte contraddittorie, diffidenze incrociate tra le capitali. Francesi e danesi, tra gli altri, sospettano che Meloni punti a ottenere un trattamento privilegiato sui prelievi alle dogane statunitensi. C’è il precedente del 2019, quando l’Amministrazione Trump usò la mano leggera sui prodotti del «Made in Italy», specie l’alimentare.
In maniera opposta, gli italiani, ma anche spagnoli, francesi e croati, ascoltano con crescente insofferenza le «prediche» dei polacchi e dei baltici sugli investimenti militari. Questi Stati guidano la classifica stilata dalla Nato. Nel 2024 la Polonia ha speso il 4,12% del Pil; l’Estonia il 3,43%; la Lituania il 2,83%. L’Italia solo l’1,5%. Negli ultimi anni i Paesi dell’Est hanno beneficiato di uno stretto rapporto con gli Stati Uniti, scavalcando i soci dell’Ue. La prova? Si trova nei documenti pubblicati dall’«Us Foreign Assistance» del Dipartimento di Stato. Tra il 2017 e il 2022 la Polonia ha acquistato armi fabbricate negli Usa per un valore di 10 miliardi di dollari. E solo nel 2023 ha comprato, sempre dagli Stati Uniti, batterie di missili Patriot ed elicotteri Apache per un valore di 23 miliardi. Anche il caso della Lituania è interessante. Tra il 2017 e il 2022 ha speso 600 milioni in ordigni militari. Il 40% di questa cifra è stato coperto dal Dipartimento di Stato Usa, con prestiti di favore o sovvenzioni a fondo perduto. Morale: è più facile svettare nella graduatoria dell’Alleanza atlantica con l’appoggio, anche finanziario, degli Stati Uniti.
Ora la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, dovrà trovare un terreno comune: complicato. Per favorire l’ala aperturista sta proponendo di acquistare più armi e più gas liquido dagli Usa. In teoria una risposta veramente efficace sarebbe comprare meno armi e meno gas. Per liberare margini agli investimenti per la difesa, la presidente assicura che si potrebbe rendere più flessibile il patto di stabilità. Italia e Francia chiedono lo scorporo delle spese, perlomeno solo di quella quota necessaria per raggiungere l’obiettivo fissato dalla Nato. Meglio ancora sarebbe coprire le uscite con l’indebitamento comune. Germania e Olanda, pero, sono contrarie, i nordici scettici.
A un certo punto sarà necessario tirare le fila. Tutti dovranno rinunciare a qualcosa. La Francia alla linea dura sui dazi; Germania, Olanda e nordici al «no» agli eurobond e a vincoli di bilancio più blandi. La Polonia a una soglia insostenibile di spese militari. E l’Italia? Dovrà garantire ai partner che non sfrutterà il rapporto preferenziale con Trump, ammesso che alla prova dei fatti esista davvero, per cercare sconti sui dazi. Dopodiché Meloni sarebbe nelle condizioni di sollecitare più elasticità sulle regole di bilancio.
4 febbraio 2025
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