Pagare il pizzo alle bande libiche non è una strategia di sicurezza per l’Italia

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Andrea Ricolfi, domenica scorsa sul Messaggero ha espresso con chiarezza ciò a cui i dico e non dico del governo Meloni e della maggioranza alludono da giorni: aver aiutato Najem Osama Almasri a sfuggire al processo della Corte penale internazionale è stata una prova di etica della responsabilità da parte dell’esecutivo, che ha risparmiato all’Italia guai peggiori e l’ipocrisia con la quale si è coperta questa scelta, perfino negando di averla compiuta, è essa stessa una apprezzabile manifestazione di decoro. Certe cose si possono fare, ma non si devono dire. È la stessa tesi che in modo aulico aveva espresso Bruno Vespa a “5 minuti”: tutti fanno cose sporche, ma è bene che nessuno le ammetta.

Ci pare un modo non tanto cinico, quanto decisamente ingenuo, per liquidare la questione se questa cosa sporca – e le tante di uguale fatta, a cui l’Italia si è resa disponibile con gli appaltatori della politica anti-migratoria – renda davvero più libero e sicuro il nostro Paese e più al riparo dai venti di tempesta.

L’ennesimo pizzo pagato agli estorsori, a beneficio di uno dei capi banda della Tripolitania dimostra qualcosa che è più simile al contrario. La vicenda di Almasri, il boia libico accusato di torture, stupri e omicidi, diventa emblematica di una strategia politica che, negli anni, ha sacrificato la dignità dei migranti sull’altare di una sicurezza nazionale costruita sulla ricattabilità dell’Italia e sull’impunità dei suoi ricattatori. E la domanda sorge spontanea: chi lo molla, chi è libero di mollarlo questo boia, se ha le chiavi di casa dell’Italia?

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Il Memorandum Italia-Libia del 2017, firmato sotto il governo Gentiloni, auspice il ministro dell’interno Marco Minniti, è stato il patto che ha sancito il conferimento della sicurezza nazionale italiana ai signori della guerra di un Paese inesistente, con un governo legittimo, cioè riconosciuto, costituito da una somma di bande criminali. L’accordo, incentrato sul blocco dei flussi migratori attraverso la Libia, ha trasformato l’Italia nello sponsor di un regime che chiude i riapre i rubinetti degli sbarchi come strategia negoziale. I governi dal 2017 a oggi hanno ritenuto che i problemi di diritto che riguardavano il trattamento degli ostaggi di Almasri non riguardassero l’Italia, mentre non solo la riguardavano e la schieravano dal lato dei carnefici, ma ne facevano un ulteriore ostaggio della violenza libica.

Con l’alibi della sicurezza, l’Italia ha accettato che la Libia diventasse una zona di non diritto, dove la violenza nei confronti dei migranti è una pratica quotidiana. In cambio dell’atroce e assurda promessa di fermare (in realtà di sfruttare) le migrazioni dalle zone più povere e difficili del mondo a quelle più ricche e democratiche, la Libia ha ottenuto fondi, supporto e una sorta di legittimazione internazionale e ha trovato la gallina dalle uova d’oro di un ricchissimo business criminale, che rende ancora più complicata pure la sua evoluzione politica interna. 

Infatti, cosa significa gestire i flussi migratori in Libia? Significa finanziare un sistema che, dietro la facciata della cooperazione, ha fatto proliferare i lager dove le persone vengono detenute in condizioni disumane, torturate fisicamente e psicologicamente, violentate e risparmiate o uccise sulla base di considerazioni di prezzo. I prigionieri valgono due volte: per loro pagano i familiari, perché rimangano vivi e possano sperare di tornare liberi e paga l’Italia, perché rimangano prigionieri e lontani dalle rotte mediterranee. 

Come un’impresa può essere costretta nell’immediato a pagare il pizzo, ma deve trovare il modo di liberarsi da questa schiavitù se vuole liberamente prosperare, così uno stato può essere costretto a cedere a un ricatto, ma non può basare la propria stabilità sulla dipendenza dai ricattatori. Ogni governo che ha mantenuto questo patto con Tripoli ha perpetuato un tradimento non solo dei nostri valori, ma anche dei nostri interessi, accettando che la Libia, una realtà di non diritto, diventasse il nostro guardiano.

Il generale Almasri, accusato di crimini indicibili, era per l’Italia un personaggio scomodo, proprio perché era perfettamente rappresentativo della natura degli accordi stretti con la Libia, che proprio attraverso uomini come lui, ha gestito in modo brutale e sistematico i centri di detenzione. Per l’Italia, Almasri era semplicemente l’uomo giusto al posto giusto: il boia utile. Quando il suo arresto e il mandato di cattura internazionale hanno portato alla luce la sua vera natura, la risposta del governo italiano è stata l’ennesima conferma della nostra impotenza di taglieggiati: rimpatriarlo rapidamente, per continuare a garantirsi la collaborazione della Libia nella gestione dei flussi migratori.

Il fatto che l’Italia abbia deciso di non mollare il boia Almasri è l’ennesima prova che un sacrificio di diritto per una democrazia è anche un sacrificio e non un guadagno di sicurezza. La ragione di Stato doveva esprimere la potenza dell’Italia, ne ha certificato la debolezza.

La reazione del governo Meloni, con le sue goffe giustificazioni, vuole nascondere anche questo. Non solo il favore fatto a un assassino, ma la natura obbligata di questo servizio. Il governo italiano ha provato a scaricare la responsabilità sulla magistratura, come se la decisione di rimpatriare Almasri fosse l’ultimo effetto di un insieme di incidenti giuridici a catena, non una scelta politica di sabotaggio della richiesta della Corte penale internazionale. In realtà, ciò che è successo è semplice: ha vinto la ragione di Stato, ma di quello Stato inesistente che è la mezza Libia occidentale, non dell’Italia.

Questa vicenda ci dovrebbe costringere a riflettere, ancora una volta, sul rapporto tra politica e giustizia e su quanto e fino a che limite la sicurezza di una democrazia e di uno stato di diritto possa dipendere dai suoi nemici. 

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