Pd e M5s, troppo diversi per stare assieme

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«Il Pd da solo non ha nessuna chance di vincere. Ma trovare un alleato “giusto” non è facile», dice Paolo Natale, politologo della università Statale di Milano, «perché con i 5stelle, peraltro in caduta libera, si punterebbe su un alleato instabile e con il quale vi sono molti punti di frizione, dall’immigrazione all’Europa». E dunque?

«Il problema del Pd è che ha ridotto il proprio bacino di potenziali elettori diventando il partito dei diritti civili, delle élite, di chi non paga per la globalizzazione e l’immigrazione incontrollata. E dall’altra parte», ragiona Natale, «ha un centrodestra che, merito di Berlusconi, ha sempre remato compatto, ogni partito con una propria connotazione ma con valori di base comuni e radicati, capace di parlare ad ampie fette di popolazione. Al Pd servirebbe ritarare la propria offerta politica alla luce dei problemi che hanno fatto saltare la vecchia Europa. E trovare un alleato che non dia risposte ideologiche ma pragmatiche».

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Domanda. Ha scatenato un acceso dibattito la proposta di Dario Franceschini al Pd di andare da soli alle elezioni. Perché separati ognuno porta a casa più voti.

Risposta. La storia del centrosinistra in verità ci racconta che per vincere, sia pur di poco, la sinistra non può non allearsi con qualche altra forza politica. L’attuale Partito Democratico non era competitivo nemmeno quando, con Walter Veltroni, viveva un momento di “euforia” da stato nascente. Oggi, ridotto al massimo al 25% dei consensi per essere ottimisti, certamente non può pensare di essere competitivo correndo in maniera solitaria.

D. Cosa impedisce di andare uniti?

R. Bramosia di potere? Eccesso di individualismo?

D. Quando sono andati tutti assieme nel 2006 vinsero su Berlusconi, ma poi non finì benissimo.

R. Ci fu la guerra di tutti contro tutti e il governo Prodi si cappottò dopo soli due anni. Troppe differenze.

D. Perché al centrodestra riesce più facile essere unito?

R. Silvio Berlusconi è riuscito con Forza Italia a mettere assieme Lega e An nel 1994, con una saggia differenziazione dei ruoli: parzialmente uniti al Nord e parzialmente uniti al Sud. Da allora, anche nelle esperienze di governo, è riuscito a mantenere ruoli diversi ma sempre con una unitarietà di fondo molto forte: meno tasse, meno immigrati, meno burocrazia, meno stato.

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D. E allora?

R. Nel centrodestra vi è una visione del mondo molto simile, che riesce a dare più suggestioni e proposte ai ceti più fragili che patiscono gli effetti della globalizzazione e dell’immigrazione. Ma anche a quei ceti produttivi che mal vedono l’ipertassazione e l’iperfetazione dello stato.

D. A sinistra vi è una visione diversa?

R. Una visione diversa e distinta al suo interno. Basti pensare alle differenze tra Pd e M5s, che pure sarebbero gli alleati ideali del campo del centrosinistra. Il Pd è per l’accoglienza incondizionata dei migranti, il M5s per il controllo delle frontiere, il Pd per l’Europa, M5s contro, divisi poi sull’Ucraina e sulla politica estera in genere.

D. In questo quindi Franceschini fa anche una operazione di verità dicendo di andare separati.

R. Certamente questo aiuterebbe a raccogliere più voti presso il proprio bacino, ma non a vincere. C’è stata un’occasione importante per costruire un’alleanza forte, ai tempi dei governi Berlusconi. Ora il tempo è passato, e sono più le cose che dividono di quelle che uniscono.

D. Nel tempo è cambiato lo stesso Pd, da partito del controllo dell’immigrazione, Marco Minniti ministro dell’interno, al partito dell’accoglienza.

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R. Il problema del Pd è che ha ridotto il proprio bacino di potenziali elettori diventando il partito dei diritti civili, delle élite, di chi non paga per la globalizzazione e l’immigrazione incontrollata. Ha perso la connessione con la massa. La quale ovviamente non vota compatta per il centrodestra, visto che manca all’appello dal 30 al 50% degli elettori, ma non va più a votare. È a questo astensionismo che il Pd deve guardare, altrimenti da solo o in compagnia non sarà mai una vera alternativa al centrodestra, almeno in questi anni in cui il vento della storia è a favore del governo Meloni.

D. Questo vuol dire cambiare programma?

R. Al Pd servirebbe ritarare al più presto la propria offerta politica alla luce dei problemi che hanno fatto saltare la vecchia Europa dopo il Covid e la guerra in Ucraina. E poi serve trovare un alleato “giusto” che non dia risposte ideologiche ma pragmatiche, capace di parlare a chi oggi non vota.

D. Elly Schlein ha ribadito, in opposizione a Donald Trump, che il partito socialista di cui il Pd è la forza maggioritaria è l’unica alternativa alla destra in Europa, e ha rivendicato le scelte green, le politiche migratorie, il salario minimo…

R. Serve una offerta politica che sia scevra da cappe ideologiche, capace di affrontare per esempio i costi sociali che il Green deal ha imposto a tutta Europa. Ci sono interi settori industriali, quello automobilistico per esempio, che stanno saltando. Mantenersi fedeli ad alcune parole d’ordine può portare fuori strada, non funziona far prevalere l’enfasi ideologica sulla realtà.

D. Tra i partner ideali del Pd ad oggi sembra esserci soltanto l’alleanza tra Verdi e Sinistra Italiana (AVS).

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R. Questa alleanza può garantirgli un altro 5-6% che lo porterebbe intorno ad un terzo dell’elettorato votante attuale. Ma non basta. Schlein ha bisogno dell’appoggio di un’altra importante forza politica, che attualmente è rappresentata dal Movimento 5 stelle. Con tutti i problemi di cui parlavamo: il partito di Giuseppe Conte è in crisi di consenso e troppi sono i punti divergenti rispetto ai democratici. Il rischio è di fare una mera operazione aritmetica, puntando peraltro su un alleato instabile.

D. E dunque?

R. Servirebbe una nuova formazione politica in grado di far tornare al voto una parte di coloro che non si riconoscono pienamente nell’attuale Pd: cattolici di sinistra, lib-dem, centristi contrari al governo Meloni, astensionisti stufi di questa alleanza di destra. I numeri sono chiari: è questa la sola ipotesi che può permettere alla sinistra di diventare competitiva.



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