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Nessuno vuole sprecare cibo. Ogni cultura lo considera moralmente inaccettabile. La necessità poi fa virtù: durante le guerre mondiali il razionamento era imposto dalla scarsità di risorse. Eppure, e veniamo a tempi più recenti, il fenomeno dello spreco alimentare è stato a lungo trascurato. Fino a una dozzina di anni fa soltanto pochi Paesi lo misuravano. L’argomento non era in cima alle agende politiche, le campagne di sensibilizzazione erano su scala piuttosto ridotta.

Pochi consideravano che lo spreco di cibo getta via risorse e alimenta il cambiamento climatico. Che, dalla fattoria alla tavola, il cibo sprecato drena acqua, terra, energia e manodopera. Che gli scarti delle discariche deperiscono, rilasciando metano. Oggi lo spreco alimentare è responsabile dell’8-10% delle emissioni globali di gas serra. È un lusso che possiamo permetterci?

No, tantomeno in Italia. Basta guardare ai dati diffusi in occasione della Giornata nazionale per la prevenzione dello spreco alimentare in calendario ieri, 5 febbraio, incentrata sul tema “Time to act” (È tempo di agire). Ogni italiano butta via in media 88 grammi di cibo al giorno, più di 32 kg all’anno. Un’abitudine che pesa anche sul portafogli: 139,71 euro di spreco pro capite, per un totale di 14 miliardi di euro annui considerando l’intera filiera, dai campi alle tavole. E il fenomeno sta peggiorando: nell’ultimo anno gli sprechi sono aumentati del 10% rispetto al 2023. 

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L’Osservatorio Waste watcher international, nel suo ultimo rapporto “Il caso Italia” (elaborazione Ipsos/Università di Bologna), mette in luce anche un paradosso inquietante: mentre si getta più cibo, l’accesso a un’alimentazione sana e sostenibile si fa più difficile. L‘indice di insicurezza alimentare (Fies) è aumentato del 13,95% nel 2025, e in parallelo la povertà assoluta in Italia è passata dal 7,7% all’8,5%, con 5,7 milioni di persone in difficoltà nel 2023. Il problema è particolarmente grave nelle regioni del Sud (+17%) e del Centro (+15%), che sono anche le aree dove si spreca di più (+16% e +4%). In questi settimane, tra l’altro, il Comune di Bologna ha scelto di portare l’attenzione su questo argomento introducendo lo “Ius cibi”, che andrà a modificare lo statuto comunale, riconoscendo a ogni individuo, indipendentemente dal proprio status socio-economico, il diritto di nutrirsi in modo appropriato.

Ma cosa buttiamo di più? Sempre secondo il report, in cima alla lista degli sprechi troviamo frutta fresca, pane, verdure, insalata e tuberi come le patate. Non c’è troppo da stupirsi: come evidenziato in questa news ASviS, si tratta di alimenti deperibili, spesso acquistati in eccesso e poi lasciati scadere. Eppure, esisterebbero accorgimenti semplici che le associazioni non si stancano di ripetere: consumare prima i cibi in scadenza, controllare regolarmente frigo e dispensa, privilegiare confezioni di dimensioni ridotte. In alcuni Paesi europei è ormai diffusa l’abitudine della doggy, o family bag, al ristorante, mentre in Italia è ancora poco praticata.

Altra pratica in crescita è l’assaggio del cibo appena scaduto, per verificare che sia ancora commestibile prima di gettarlo.

Il problema però non è solo logistico, ma anche culturale. Se l’86% degli italiani dichiara di avere a cuore e prestare molta attenzione al cibo, uno su tre ammette di non pensare agli impatti dello spreco, per il 23% la prevenzione richiede troppo tempo, secondo l’11% è troppo costosa o faticosa, mentre un 5% ritiene perfino che “non è importante”.

Decisamente i conti non tornano, e lo spreco domestico è solo la punta dell’iceberg. In tutti gli anelli della filiera agroalimentare si perdono e sprecano alimenti: una montagna di prodotti non utilizzati che bruciano risorse economiche e ambientali. 

La situazione è pertanto molto lontana dagli obiettivi internazionali di dimezzare o ridurre gli sprechi entro la fine del decennio. L’ha inquadrata bene Andrea Segré, direttore di Waste watcher: 

Su ogni cittadino gravano 32 kg all’anno: per centrare il Target 12.3 dell’Agenda 2030 delle Nazioni unite dobbiamo ridurre lo spreco pro capite di 13 kg annui entro la fine del 2029.

E Luca Falasconi, coordinatore del Rapporto, ha sottolineato che 

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l’obiettivo è ambizioso, ma insieme possiamo fare la differenza. Ogni piccola azione conta, ridurre lo spreco alimentare inizia proprio dalle nostre case, per arrivare a un massimo di 369,7 grammi settimanali di cibo gettato nel 2030.

Difficile prevedere se saremo in grado di raggiungerlo. Ma certamente è importante agire sulle molteplici dimensioni dello spreco. Nelle fasi di prima trasformazione del prodotto, infatti, le perdite alimentari sono dovute principalmente a malfunzionamenti tecnici nei processi produttivi (gli scarti di produzione), che provocano sia cali dal punto di vista quantitativo che danneggiamenti degli alimenti che poi vengono scartati. Qui l’innovazione tecnologica può essere un’alleata: sensori dell’Internet of Things (IoT) e intelligenza artificiale sono in grado di monitorare in tempo reale i macchinari, prevenendo guasti e riducendo gli sprechi. Importante anche il contributo dell’economia circolare: gli scarti della lavorazione (come farine da scarti di cereali, succhi di frutta imperfetta) possono essere riutilizzati per la produzione di alimenti secondari o bioenergia e mangimi.

Nella distribuzione e vendita, invece, lo spreco può dipendere da altre cause: ordinazioni inappropriate dei singoli prodotti, previsioni errate della domanda di cibo o ancora danni al prodotto in fase di trasporto e stoccaggio. Si tratta di cortocircuiti su cui non è sempre facile intervenire, ma alcune soluzioni già esistono. A partire dalle app salvacibo, che in verità nel nostro Paese restano un’abitudine ristretta a una fetta minoritaria della popolazione. In Francia, per esempio, la startup francese Bene Bono offre agli agricoltori e ai produttori una piattaforma per vendere prodotti rifiutati dai canali tradizionali per motivi estetici o logistici. Tra le app progettate per combattere lo spreco alimentare, una delle più note è Too good to go, attiva in Europa e negli Stati Uniti, che consente ai negozi di vendere le “Box dispensa”, scatole che raccolgono prodotti ancora buoni ma che andrebbero sprecati. La piattaforma afferma di “salvare” ogni giorno 300mila pasti dalle discariche. 

In Italia la rete del Banco alimentare raggiunge ogni anno oltre 110mila persone svantaggiate. “Recuperiamo e distribuiamo alimenti per chi è in difficoltà”, fa sapere l’organizzazione, “seguendo i nostri valori: in primo luogo il dono e la gratuità dell’azione, la condivisione dei bisogni, la solidarietà. Una macchina sempre in moto per recuperare le eccedenze, salvarle da un destino infausto e riutilizzarle per contrastare la povertà alimentare”. Cittadinanzattiva ha lanciato in questi giorni il progetto “Nutrizione sostenibile e lotta agli sprechi”, sostenuto tra gli altri dall’Unione italiana per l’olio di palma sostenibile, che prevede una una consultazione civica nazionale per definire in un report pubblico le esigenze dei consumatori sul tema, oltre ad attività di formazione e campagne informative online.

Per monitorare lo spreco alimentare domestico è attivo lo Sprecometro, strumento lanciato dalla Campagna Zero spreco, che misura la perdita economica, l’impronta carbonica e quella idrica dei consumatori. Anche l’Associazione italiana per lo sviluppo dell’economia circolare (Aisec) è in prima linea per la riduzione degli sprechi, con iniziative sul riutilizzo dei prodotti e il consumo responsabile. Promuovere un modo più consapevole e sostenibile di produrre e fare la spesa è una delle missioni della rete NeXt-Nuova economia per tutti, attiva da oltre dieci anni anche attraverso la raccolta di buone pratiche delle aziende. 

Ma veniamo alle normative. In Italia abbiamo una legge all’avanguardia rispetto a molti Paesi europei. Si tratta della Legge Gadda (166/2016), che prevede una serie di misure per ridurre la produzione di rifiuti ed estendere il ciclo di vita dei prodotti con finalità di riuso e riciclo, oltre a incentivare la redistribuzione del surplus alimentare. Una buona legge che ha facilitato la donazione di tonnellate di cibo che altrimenti sarebbero finite in discarica. 

Se c’è una questione su cui invece bisogna intervenire urgentemente nel Paese, è quella della povertà educativa che limita la comprensione del valore del cibo. Non a caso i poveri cercano il costo dell’alimento più basso, cioè il cibo spazzatura. Un cortocircuito che ha un impatto devastante sulla salute: mangi peggio e ti ammali di più. Ecco perché il cibo e i consumi alimentari corretti devono essere al centro di una nuova economia. Si può fare di più, cominciando dallo sviluppo di accordi di filiera tra agricoltori, produttori e distributori per una più corretta programmazione dell’offerta alimentare. Anche la promozione di pratiche di riuso e riciclo di alcuni prodotti, come il vuoto a rendere, può contribuire alla riduzione degli sprechi.

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Per una corretta educazione alimentare del consumatore, bisogna anche valorizzare le diete sostenibili. Un modello d’eccellenza ce l’abbiamo in casa: è la dieta mediterranea, in grado di soddisfare i bisogni nutrizionali e fornire protezione da diverse patologie. Eppure, come abbiamo visto, lo spreco colpisce anche i suoi principali alimenti. Non solo: attualmente la dieta mediterranea viene seguita da meno della metà degli italiani, e anche i giovani la conoscono poco. Non c’è più tempo da perdere: con un impegno collettivo si può ripartire dalle scuole, ridurre lo spreco e garantire un accesso più equo ai beni alimentari. 

 

Copertina: 123rf



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