Cosa serve ai ristoranti italiani per tornare ad attirare i giovani talenti

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Può sembrare una frase fatta, ma se l’obiettivo è risollevare la ristorazione italiana, restituendole appeal tra le nuove generazioni, non si può che partire dalla scuola.

La situazione in cui si trovano gli istituti alberghieri in Italia oggi è lo specchio di un settore in crisi di identità, alle prese con una cronica carenza di manodopera e, di conseguenza, di addetti qualificati. Le iscrizioni negli alberghieri si sono quasi dimezzate nel giro di dieci anni e i fondi a disposizione di questi istituti sono sempre di meno. Non è un caso che tra i ragazzi e i genitori permane la percezione errata che si tratti di scuole di serie B.

Dopo la crescita delle iscrizioni in linea con il boom dei programmi di cucina in tv, l’attrattività della ristorazione è messa in discussione dai macro trend, demografici e anagrafici, che caratterizzano il mercato del lavoro. Conviviamo tutti i giorni con la difficoltà strutturale di reperimento di camerieri e cuochi e con il conseguente leit motiv comunicativo del «cercasi personale». Tra le conseguenze del calo demografico e della pandemia, che ha rivelato la fragilità imprenditoriale del settore interessato dalle chiusure dei lockdown, i giovani rischiano di essere sempre meno protagonisti di questo mondo.

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Il Covid ha fatto riscoprire il valore del tempo libero e ridato senso alla qualità del lavoro, allontanando le giovani generazioni da un settore diventato nel tempo sinonimo di sfruttamento, sacrificio e irregolarità.

Tuttavia, guardando ai dati in base all’età, dal 2009 i lavoratori under 30 sono aumentati di circa 163.000 unità (+61,9 per cento) e rappresentano circa il 40 per cento dei lavoratori dipendenti (era circa il 42 per cento nel 2009). Di fatto, la ristorazione non ha perso la componente giovane della sua popolazione lavorativa. Ciò non è dipeso dalla sostituzione dei lavoratori italiani con quelli stranieri: infatti, i primi sono aumentati di 134.289 unità (+70 per cento), i secondi di 28.746 (+40,2 per cento). La componente italiana dei lavoratori under 30 è pari al 76,5 per cento (era il 72,8 per cento nel 2009), quella straniera al 23,5 per cento (ed era il 27,2 per cento).

In sostanza, all’invecchiamento della popolazione dipendente dei pubblici esercizi (gli over 50 sono aumentati del 242,2 per cento rispetto al 2009 e rappresentano il 19,3 per cento del totale degli occupati dipendenti) non ha fatto da contraltare una emorragia di giovani: è la riprova della capacità, mostrata dal settore in questi anni, di continuare ad attrarre anche i più giovani.

Può bastare? Certamente no, in particolare in termini di investimento sulla qualità del lavoro offerto, sulla formazione, sulla conciliazione vita-lavoro e sulla capacità di fornire percorsi di carriera coerenti e riconoscibili in grado di fornire una prospettiva di crescita professionale ed economica.

Il primo passo deve essere allora quello di valorizzare le figure professionali del settore, codificando il titolo del diploma alberghiero con la nuova figura del “tecnico della sala o della cucina” spendibile sul mercato. È evidente che la qualificazione dei percorsi non può che passare da una condivisione tra istituti alberghieri e ristoratori, attraverso un’assunzione di fiducia reciproca. Da un lato buona formazione, dall’altro buone e corrette condizioni di lavoro.

Da tre anni, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi (Fipe) porta già avanti con le Camere di commercio e la Rete Nazionale degli Istituti Alberghieri e della Ristorazione un percorso di alternanza scuola-lavoro al termine del quale gli studenti ricevono una certificazione delle competenze soft e hard. Grazie a questa collaborazione, oltre quattrocento ragazzi hanno ottenuto uno skill badge digitale che va ad arricchire il curriculum e orienta gli studenti di terza e quarta superiore al settore.

Anche con gli Its la Fipe ha avviato la creazione di un nuovo percorso di formazione per arrivare a un titolo professionale di middle management degli esercizi pubblici, i cosiddetti responsabili di sala o di cucine, e cioè figure in grado di affiancare gli imprenditori nella gestione dell’impresa. In poche parole, sempre più imprenditori e sempre meno solo chef. A questo progetto aderiranno in una prima fase sessanta aziende, ma c’è da fare ancora tanto in termini di promozione e soprattutto di accettazione di queste figure da parte delle imprese.

Il prossimo passo è immaginare anche una figura universitaria evoluta sul management della ristorazione. La grande sfida è quella di accompagnare le imprese del settore all’inserimento di queste figure, un ‘opportunità per delegare processi gestionali dell’azienda e per ampliare il business anche attraverso nuove aperture.

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Per modernizzare il settore, c’è infatti bisogno anche di una nuova cultura imprenditoriale che non può che partire dalla formazione manageriale. Sono ancora troppi i ristoranti che chiudono dopo cinque anni dall’apertura e il rischio di improvvisazione e di aperture improvvisate, in assenza di occasioni di lavoro, è ancora alto. Ristoranti e bar sono imprese come altre e come tali vanno gestite ed evidentemente non è più sufficiente saper fare un caffè o offrire un buon prodotto.

È evidente che si tratta più complessivamente di una “sfida Paese” e se il mondo della scuola e la classe imprenditoriale devono fare la propria parte anche le istituzioni devono accompagnare e agevolare i processi di cambiamento.

Il made in Italy e il cibo italiano sono spesso materia di scontro e propaganda politica, ma occorrono azioni e misure concrete e strategiche per risollevare il settore e garantirgli un futuro.

La scuola deve essere al passo con i tempi, avere laboratori innovativi e un piano di studi coerente con le richieste del mercato e le esigenze anche tecnologiche del settore. I professionisti esterni devono essere coinvolti nella formazione, che deve avere un numero maggiore di ore dedicate alla pratica e ai laboratori.

Nello stesso tempo, i ristoratori devono fare la propria parte, innovando l’organizzazione del lavoro e migliorando la produttività, garantendo turni sostenibili, giornate di riposo e un equilibrio vita-lavoro attraverso una gestione del lavoro e delle relazioni che siano positive e inclusive,. La retorica del sacrificio a tutti i costi non favorisce l’attraction e la retention.

Da parte delle istituzioni, è necessario un investimento costante sulla formazione e una seria regolazione del mercato, contrastando l’abusivismo, il dumping contrattuale e includendo la ristorazione nelle imprese del “turismo”, così da consentire al settore l’accesso alle relative agevolazioni fiscali e sugli investimenti .

*Andrea Chiriatti è Responsabile Lavoro di Fipe-Confcommercio

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