Molti si stupiranno nel constatare che il più grande Ateneo italiano non è più Università degli Studi la Sapienza di Roma, che conta nell’Anno Accademico 2023/2024, 111.960 iscritti – secondo i dati Ustat, 2024 – ma il Gruppo Multiversity SPA. Si tratta di una società di capitali privata, che annovera tra le sue Università in Italia 169.020 iscritti.
Devono, infatti, essere sommati i 99.556 iscritti all’Università Telematica Pegaso con i 56.335 dell’Università Digitale Mercatorum e i 13.1292 iscritti dell’Università Telematica San Raffaele di Roma. Multiversity è proprietà di un fondo di investimento britannico CVC Capital partners a sua volta di proprietà del colosso bancario e finanziario statunitense Citigroup. Questo dato è sorprendente com’è stata sorprendete la crescita delle Università telematiche in Italia dal 2004 a oggi.
Nascita ed evoluzione degli atenei telematici in Italia
Gli undici Atenei telematici italiani – la didattica si svolge direttamente on-line e sono Università senz’aule, se non virtuali – sono stati istituiti durante il secondo governo Berlusconi, sotto la guida della Ministra Moratti (Tipolo III, Capo 2, art. 26, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289) e attivati secondo le norme del Decreto Ministeriale del 17 aprile 2003, noto come “Decreto Moratti-Stanca”. Il primo Ateneo telematico a nascere è stato nel 2004 l’Università “Guglielmo Marconi” (D.M, MIUR, 1 marzo 2004). Successivamente, la loro crescita numerica che era arrivata a 13 Atenei, è stato limitata dal secondo governo Prodi, nel 2006, quanto Ministro Mussi, ha bloccato per l’accreditamento di nuove Univeristà telematiche (art. 2, comma 148 del DL 3 ottobre 2006, n. 262).
Per oltre due decenni gli Atenei telematici hanno operato in un quadro normativo “speciale”, se non “anomalo” e molto più favorevole rispetto a quello delle università del sistema pubblico tradizionale. In particolare, la differenza più rilevante rispetto, rispetto agli Atenei pubblici era stabilita dal numero di docenti necessario per attivare un Corso di laurea che era definito della Legge del 2003, nella metà di docenti necessari per attivare un Corso di Laure nelle Università pubbliche tradizionali. Bastavano tre docenti di ruolo al posto di sei per le lauree triennali e due al posto di quatto per le magistrali.
Il Decreto, che ha istituito le Università telematiche definiva, poi, un tempo di tre anni per raggiungere questi requisiti minimi di docenza, necessarissimi, ovviamente, per garantire la qualità della didattica e della formazione in uscita delle studentesse e degli studenti. Ma i governi che si sono susseguiti, soprattutto quelli di centro-destra, hanno sempre avuto sempre un occhio di riguardo per le Università telematiche private e sono stati molto elastici nel far rispettare le norme relative ai requisiti minimi di docenza e di verifica della qualità della didattica delle università telematiche. Dopo la legge Moratti-Stanca del 2003 e il Decreto Mussi, la vita di questi atenei è stata di volta in volta normata da decreti triennali, a partire dalla legge Gelmini del 2010, che hanno regolato in forma “speciale” la crescita degli Atenei telematici. Da questo punto di vista e come hanno notano Iannantuoni e Marra: “tutte le telematiche hanno potuto godere sino a oggi di un grosso vantaggio competitivo in termini di costo nei confronti delle università tradizionali. Come già veniva segnalato in un articolo del 2016 su lavoce.info (De Paola, Jappelli 2016), il corpo docente delle università telematiche era sin da allora costituito prevalentemente da professori a tempo determinato” (Iannantuoni, Marra 2016).
Un successivo decreto ministeriale del 2019 ha, poi, ulteriormente modificato la situazione, introducendo requisiti di accreditamento più blandi, avvantaggiando così ancora di più, su questo versante, le università telematiche private, tanto da far sospettare a molti che queste costituissero, soprattutto per i governi di centro-destra, uno strumento “indiretto” di privatizzazione “strisciante” del sistema universitario italiano. Dopo questa precisazione, e prima di formulare una serie di ragionamenti sulle criticità e i rischi legati al successo delle Università telematiche, analizziamo come in questi vent’anni, il numero degli studenti di questi atenei sia cresciuto in modo molto rilevante.
L’impetuosa crescita delle Università telematiche
Come dimostra, l’ultimo Rapporto ANVUR (2023) le immatricolazioni registrate nelle Università telematiche seguono una tendenza di aumento costante rispetto delle Università del sistema pubblico. Nello specifico, tra l’anno 2013/2014 e l’anno 2022/2023, in soli 9 anni, il numero delle immatricolazioni registrate in questi Atenei è infatti più che quintuplicato, passando da 4.827 a 26.108 immatricolazioni per Anno Accademico. È stata la pandemia, a favorire determinare l’emersione definitiva del fenomeno. Se passiamo dalle “immatricolazioni” alle iscrizioni” e. cioè al totale degli studenti che stanno effettivamente “frequentando” le università telematiche in modo attivo il dato è ancora maggiore. Osservando l’intervallo temporale tra l’Anno Accademico 2013/2014 e il 2023/2024 emerge, anche in questo caso, come il numero degli iscritti “telematici” è più che quintuplicato, passando da 52.118 a 273.762 iscritti. In percentuale il numero degli iscritti alle università telematiche era, nel 2013, pari al’ 3,1% del sistema universitario e nel 2024 tale percentuale si è assestata al 14,0% del totale.
I fattori di criticità delle Università telematiche private
Nel nostro paese le Università private – prima della crescita esponenziale degli Atenei telematici – sono state una realtà presente, anche se decisamente minoritaria: il 6,5% degli iscritti nell’ Anno Accademico 2022/2023. Le università private “tradizionali” italiane però, si sono sempre uniformate, secondo il modello tedesco, che risale a Von Humboldt (1810), con il ruolo pubblico e nazionalmente regolato della formazione terziaria. Inoltre, prima delle telematiche, le Università private in Italia facevano riferimento a realtà ed istituzioni molto radicate nella società italiana – la Chiesa Cattolica o la Confindustria, ad esempio – che ne garantivano, l’affidabilità e la solidità istituzionale e scientifica, è per questo che di seguito le considereremo, come parte del sistema pubblico dell’istruzione terziaria italiano. Oggi però più di 270.000 mila studenti sono al di fuori di questo sistema e frequentano le “nuove” Università telematiche “private” che agiscono, spesso, come società di capitali finalizzate al profitto.
Università o imprese votate al profitto?
Questo è confermato dal “Parere” dalla Sezione Normativa del Consiglio di Stato che ha autorizzato, su richiesta dell’Ateneo telematico Pegaso, questi Atenei ad adottare la forma di una società di capitali (14 maggio 2019 n°1433). Il 5 luglio 2019 è stato pubblicato il Decreto del Presidente del Consiglio di amministrazione dell’Università telematica Pegaso (Gazzetta ufficiale, Serie generale n. 156), che ne modifica lo Statuto, mediante adozione della forma giuridica della società a responsabilità limitata, assumendo la denominazione di “Università telematica Pegaso S.r.l.”. Se si escludono, infatti, UniTelma (4000 iscritti) che fa capo all’Università Statale La Sapienza di Roma, e la IUL (promossa da INDIRE) con meno di 2000 iscritti, gli altri Atenei telematici sono o posso divenire a pieno titolo “imprese” che hanno come ragione sociale il profitto e non la crescita della ricerca di base e/o applicata o quella competenza e del livello culturale degli studenti.
Questa “novità” nel panorama dell’istruzione universitaria italiana rende necessaria una profonda riflessione sull’effettiva rispondenza al dettato costituzionale di una parte, non ininfluente, il 14 % degli studenti del sistema universitario italiano (Ustat, 2024). L’articolo 33 della Costituzione sancisce, infatti, “che l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento, garantendo alle università e alle accademie il diritto all’autonomia nei limiti delle leggi dello Stato”. La Corte costituzionale (sentenza n. 1017/1988) ha sottolineato che questa autonomia, intesa in senso ampio – normativa, didattica, scientifica, amministrativa, finanziaria e contabile – è strettamente legata alla libertà di ricerca e insegnamento, principi fondamentali per preservare l’indipendenza delle istituzioni di alta cultura da qualsiasi influenza, inclusi gli interessi commerciali.
La domanda che ci poniamo è però piuttosto radicale. Saranno davvero liberi gli Atenei telematici italiani che hanno nel profitto economico la loro prima priorità nella governance? Ma soprattutto la qualità della didattica e della ricerca di queste università non sarà condizionata dalla loro finalità quasi esclusivamente profit? Per rispondere a queste domande analizziamo i risultati del Rapporto ANVUR 2023 dedicato all’analisi della qualità del sistema universitario italiano, come base per sviluppare il ragionamento sulle criticità che emergono nel panorama delle Università telematiche italiane.
Un rapporto docenti studenti squilibrato
Se è vero che le Università telematiche hanno ampliato significativamente l’accesso all’istruzione superiore – un fenomeno che può, essere interpretato positivamente in termini di democratizzazione dell’istruzione soprattutto per studenti tradizionalmente svantaggiati: lavoratori o studenti residenti in aree periferiche – è vero, anche, che questa maggiore “accessibilità” ha in Italia un costo qualitativo. ANVUR rimarca; “L’’effetto combinato della riduzione dei requisiti di docenza richiesti per l’accreditamento dei corsi di studio, a fronte comunque di un aumento del numero dei docenti contestuale all’esplosione nel numero di iscritti, ha determinato il rilevante aumento del rapporto studenti/docenti, che è passato da 152,2% del 2012 a 384,8% del 2022 – un indicatore di circa tredici volte superiore rispetto alle università tradizionali, ANVUR 2023, p. 17). Questo dato suggerisce che l’ampliamento quantitativo avviene, come vedremo, a scapito della qualità della didattica. Gli Atenei telematici rischiano, in questo modo, di creare lauree di “seconda classe”, con un valore percepito inferiore dei titoli rilasciati rispetto a quelli delle Università del sistema pubblici. Questo potrebbe aumentare le disuguaglianze piuttosto che ridurle.
Una didattica più standardizzata rispetto agli Atenei pubblici
Lo squilibrio nel rapporto tra docenti/studenti può portare le Università telematiche a basarsi su modelli didattici molto standardizzati, che spesso privilegiano l’efficienza operativa rispetto alla profondità del processo didattico e all’approfondimento disciplinare. All’interno nelle Università telematiche si possano riscontrare i seguenti “indicatori” di rigidità didattica:
- utilizzo predominante videolezioni in fruizione asincrona;
- gli esami che sono spesso costituti/sostituiti da test a scelta multipla online, che sebbene pratici, riducono la complessità del processo di valutazione, compromettendo la capacità degli studenti di sviluppare pensiero critico e competenze trasversali.
- l’”anomalo” rapporto tra docenti/studenti, inoltre, obbliga a limitare fino ad annullare l’interazione diretta o sincrona tra studenti e docenti e tra studenti e studenti.
La standardizzazione dell’offerta didattica è ulteriormente aggravata dalla moltiplicazione dell’offerta didattica delle telematiche. Il Rapporto ANVUR 2023 segnala come “osservando l’offerta formativa delle università tradizionali (5.031 corsi di studio nell’a. A. 2021/22) e quella delle università telematiche 149 corsi di studio nell’a.a. 2021/22) si nota, rispetto all’a.a. 2011/12, il sostanziale raddoppio dei Corsi di Laurea erogati dalle seconde, a fronte di un incremento del 10% circa (poco meno di 500 corsi) delle università tradizionali” (ANVUR 2023, p. 25”.
I risultati delle valutazioni ANVUR: le università pubbliche meglio delle telematiche
A chiudere questo elenco di criticità che emergono nel confronto tra università telematiche e Università pubbliche vanno considerate le “valutazioni” che la stessa ANVUR ha condotto sull’operato di tutte le università italiane, nel corso delle varie visite di accreditamento periodico, avviate a partire dal 2014. Se mettiamo a confronto i giudizi ottenuti dalle Università pubbliche e quelli delle Università telematiche, in questi otto anni la differenza è molto chiara ed il confronto sembra impari.
Fig 2 Le valutazioni ANVUR delle università tradizionali
Fig 3 Le valutazioni delle Università telematiche
Le università del sistema pubblico, secondo l’ANVUR, mostrano una valutazione molto più positiva, con i risultati delle visite periodiche “Molto Positivi” o “Pienamente Soddisfacenti” che si attestano sopra il 46%. Un risultato che riflette il rispetto di standard qualitativi più elevati, in particolare per quanto riguarda il rapporto studenti/docenti e l’organizzazione didattica.
Se consideriamo, invece, le università telematiche il panorama è molto differente. Solo una piccola percentuale delle sedi telematiche riceve giudizi “Pienamente Soddisfacente” (11%) e nessuna raggiunge il livello “Molto Positivo”. La maggioranza delle sedi telematiche è valutata come “Soddisfacente” (42,1%) o addirittura il loro accreditamento è “Condizionato”, aggettivo che indica la necessita di notevoli interventi di riprogettazione dei corsi di Laurea e accrescimento del corpo docente (13%), pena la disattivazione del Corso.
La distribuzione geografica mostra notevoli disparità, anche tra le università pubbliche tra Nord-Ovest e il Nord-Est che ottengono i risultati migliori rispetto al Sud e alle Isole, dove le valutazioni “Condizionato” per le telematiche sono significativamente più alte (fino al 33,3%), mentre tra le pubbliche questa valutazione è quasi assente.
Questi dati confermano alcune delle criticità strutturali già discusse più sopra e rafforzano la percezione di una polarizzazione tra università tradizionali e telematiche, in cui queste ultime rischiano di produrre laureati che potrebbero non avere le stesse opportunità rispetto al mondo del lavoro rispetto a quelli di molte università pubbliche.
I rimedi per le telematiche dei ministri Messa e Bernini: due punti di vista differenti
Per porre rimedio a queste gravi criticità, già nel 2021 l’allora Ministro Cristina Messa emanò il Decreto Ministeriale n. 1154, che in sostanza prevedeva, il riallineamento degli Atenei telematici ai criteri ed ai requisiti minimi di docenza per gli Atenei pubblici: 9 docenti per i Corsi di Laurea Triennali (più tre tutor disciplinari per le telematiche); 6 docenti per le lauree Magistrali (più 2 tutor di riferimento per le telematiche) e 15 e 18 docenti per le magistrali a ciclo unico di 5 e 6 anni. Inoltre, per riequilibrare il rapporto tra docenti e studenti nel Decreto Ministeriale n. 1154 del 14 ottobre 2021, la numerosità massima degli studenti nei differenti corsi di laurea, viene resa eguale tra atenei in presenza e telematici. Si trattava di una vera “stretta” per obbligare le telematiche a migliorare la qualità della didattica e della docenza. Tutti questi obiettivi, poi, dovevano essere raggiunti entro il 30 novembre 2024.
Le sanzioni per chi non si fosse uniformato, sarebbero state molto pesanti e avrebbero previsto la chiusura dei Corsi di Laurea e il mancato accreditamento degli Atenei. Ovviamente le Università telematiche sarebbero state messe in gravissima difficoltà dal “Decreto Messa” e per questo questi gli Atenei telematici hanno provato, più volte a bloccarlo. Sono stati presentati ricorsi al TAR del Lazio, ma la Sezione Terza ha respinto le loro istanze; queste si sono, successivamente appellate al Consiglio di Stato, che a dato loro nuovamente torto (sentenza n. 1157 del 5 febbraio 2024).
Le telematiche hanno poi confidato sull’emendamento al Decreto Milleproroghe 2024 presentato da alcuni deputati della Lega (Ravetto, Stefani, Bordonali, Ziello e Iezzi), che rimandava di un anno gli obblighi ad uniformarsi ai criteri del DM Ministeriale n. 1154 (il “Decreto Messa”. L’emendamento ottenne, però, il parere contrario dalla Ministra Bernini, succeduta a Cristina Messa dopo al la caduta del Governo Draghi al Ministero dell’Università.
Per risolvere questa situazione di empasse il Ministro Bernini e il centro-destra, ora al governo, hanno assunto un atteggiamento più “dialogante” con le Università telematiche e hanno rinnovato le attività di un gruppo di lavoro ministeriale già istituito dalla ministra Messa (Decreto Ministeriale 294/2021) che aveva da tempo smesso di funzionare. Questa situazione si è protratta fino ad autunno inoltrato. Il 6 Dicembre del 2024 la Ministra Bernini ha emanato un decreto (Decreto Ministeriale 6-12-2024 n 0001835e) che rappresenta una “mediazione”, anche se nella forma prevede norme anche più rigide di quello Messa per le Università telematiche.
Bernini rispetto al “Decreto Messa” prevede, infatti, l’obbligo per gli atenei telematici di realizzare almeno il 20% delle lezioni on-line in forma sincrona ed inoltre, prevede, la necessità di svolgere “in presenza” gli esami di profitto, salvo deroghe per emergenze temporanee o disabilità accertate (fino ad ora gli esami potevano svolgersi on-line).
Il “Decreto Bernini”, però, rappresenta una “mediazione” rispetto al Decreto Ministeriale n. 1154, perché consente alle Università telematiche una numerosità degli studenti doppia per i singoli corsi di laurea rispetto alle Università tradizionali (il decreto del 2021 allineava, come abbiamo visto, agli stessi numeri università telematiche e università pubbliche) e questo aiuta le telematiche nel raggiungere i requisiti minimi, oltre che nel moltiplicare gli introiti.
Ma, ciò, che rappresenta un cambio di linea deciso rispetto all’impostazione del governo Draghi è il fatto che il termine per il raggiungimento dei requisiti minimi fissato nel Decreto del 2021 inderogabilmente al 30 Novembre 2024 è stato posticipato e non di poco. Il decreto avrà validità dall’anno accademico 2024-2025, con la possibilità, per gli Atenei telematici di sottoscrivere con l’ANVUR piani di raggiungimento “dei predetti requisiti secondo le modalità indicate dall’articolo 4 del decreto ministeriale 1154/2021, da conseguire non oltre un numero di anni corrispondenti alla durata normale dei corsi incrementato di tre. Per i piani di raggiungimento adottati in relazione ai corsi di studio accreditati sino all’a.a. 2024/2025 la durata è pari alla durata normale dei corsi incrementato di uno” (Decreto Ministeriale 6-12-2024 n 0001835, p. 5). Ciò significa che il “Decreto Bernini” concede almeno altri tre anni alle telematiche per uniformarsi alla normativa, per questo le opposizioni hanno parlato di un decreto “salva telematiche”.
Conclusioni
Il “Decreto Bernini” contiene certamente elementi di novità che, forse, permetteranno di migliorare la qualità dell’offerta formativa delle Università telematiche italiane così come di ridurre il loro rapporto docenti/studenti ma rappresenta un deciso arretramento normativo rispetto al “Decreto Messa” del 2021. La volontà del Ministro Messa era quella di “obbligare” le telematiche a ridimensionare si la ratio “docenti-studenti” che si attesta nel 2022/23, al numero, francamente insostenibile, di 384 studenti per docente, mentre le università tradizionali, pur al di sotto sia della media UE sia di quella OCSE, si attestano a 28 studenti per docente (ANVUR, 2023). Bernini per così dire “allunga” di molto i tempi per la riforma delle telematiche. La sua linea pare, perciò, in linea con le posizioni del centro-destra, negli ultimi venti anni, rispetto alle università telematiche (Ferri, 2017). Si tratta di una politica “accomodante” che privilegia la sostenibilità economica degli Atenei telematici privati a scapito della qualità della loro offerta formativa e didattica. Se si combina questo atteggiamento “accomodante” verso le telematiche con i tagli previsti dalla Finanziaria per il 2025 agli Atenei e alla ricerca pubblica è legittimo sospettare che il centro-destra agevoli in questo modo in maniera diretta o indiretta una progressiva privatizzazione “strisciante” di una parte non piccola del sistema universitario italiano. Solo il tempo, però, ci dirà se questo sospetto corrisponde a realtà, e soprattutto se finalmente, dopo vent’anni di rinvii gli Atenei telematici italiani, cesseranno di essere una “anomalia tutelata” del sistema universitario italiano e cominceranno finalmente a “competere” ad armi pari con le università pubbliche e private italiane, non solo quanto a numero di iscritti ma anche per la qualità della ricerca e della didattica.
Bibliografia
ANVUR, (2023), Rapporto sul Sistema della formazione superiore e della ricerca. Sintesi, disponibile al sito https://www.anvur.it/wp-content/uploads/2023/06/Sintesi-Rapporto-ANVUR-2023.pdf
De Paola, M., Jappelli. T., (2016),” Per le lauree online un sostegno di troppo”, La voce.info, disponibile al sito: https://lavoce.info/archives/40790/per-le-lauree-online-un-sostegno-di-troppo/
Ferri, P. (2017) “Università online, l’Italia tra gravi ritardi ed esamifici virtuali”, Agenda digitale disponibile al sito: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/universita-online-l-italia-tra-gravi-ritardi-ed-esamifici-virtuali/
Iannantuoni, G., Marra A. “Più rigore sulle università telematiche”, Lavoce.info, disponibile al sito:
von Humboldt, W. (1810), “Uber die inner und äussere Organisation der höheren wissenschaftlichen anstelten in Berlin”, tr. it., L’organizzazione interna ed esterna degli istituti scientifici superiori a Berlino, a cura di Pievatolo, M. C. (2017)
Forse anche Uninettuano che con i suoi 17.000 iscritti è stata fondata da un network di università pubbliche ↑
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