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Il costituzionalista discute del suo report con l’Adnkronos: a forza di concentrarci sui rischi, in Europa rischiamo di non pensare a come garantire l’accesso a questa rivoluzione tecnologica

I diritti non sono solo tutela dall’ingerenza dello Stato o di un privato: nell’evoluzione costituzionale delle nostre democrazie sono diventati anche qualcosa da promuovere. Basti pensare all’accesso alla sanità, all’istruzione, ai principi incardinati nell’articolo 3 della nostra Carta: la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Ecco, quando si parla di tecnologia e intelligenza artificiale, si parla molto del diritto a essere ‘protetti’ (dal potere delle grandi aziende tecnologiche, dagli abusi sui nostri dati sensibili, dal furto di proprietà intellettuale, ecc.), ma poco di quello a essere aiutati nello sviluppo delle grandi opportunità offerte dalla rivoluzione digitale.

Questo, in una sintesi estrema, è il nocciolo del rapporto che Giovanni Guzzetta, ordinario di diritto costituzionale a Tor Vergata, ha presentato oggi alla Fondazione Luigi Einaudi, insieme al sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, al sottosegretario con delega all’innovazione tecnologica Alessio Butti, la professoressa Giusella Finocchiaro e Andrea Cangini, segretario generale della fondazione. I lavori sono stati introdotti dal videomessaggio del ministro Nordio.

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Professor Guzzetta, il rapporto evidenzia una criticità nel modo in cui oggi si affronta il tema dei diritti fondamentali in relazione all’AI. Di cosa si tratta?

La tendenza prevalente nel dibattito normativo e pubblico è quella di considerare l’AI come un fattore di rischio per i diritti fondamentali, piuttosto che un’opportunità per la loro espansione. L’approccio normativo europeo si è finora focalizzato sulla protezione da possibili ingerenze e discriminazioni, senza riconoscere adeguatamente il potenziale dell’IA nel migliorare l’accesso a diritti come la salute, l’istruzione, la sicurezza e la partecipazione democratica. Questo squilibrio rischia di soffocare l’innovazione e di impedire ai cittadini di sfruttare appieno le opportunità offerte dalla tecnologia.

Nel rapporto si parla di un necessario bilanciamento tra diritti da proteggere e diritti da promuovere. Come si può raggiungere questo equilibrio?

Il costituzionalismo ha sempre affrontato la questione del bilanciamento tra diversi valori. Oggi, la sfida è applicare questo metodo all’IA, evitando l’overregulation e garantendo un quadro normativo flessibile che favorisca sia la protezione sia la promozione dei diritti digitali. Un esempio concreto è la gestione dei bias nei dati: vogliamo eliminare le discriminazioni legate al genere, all’etnia, agli orientamenti politici. Ma nello stesso tempo i dati che servirebbero per addestrare i modelli in modo più “inclusivo” sono proprio quelli sensibili, che (giustamente) godono di un’alta protezione da parte dei nostri ordinamenti. È necessario un cambio di paradigma normativo.

In queste ore la Commissione europea ha pubblicato le linee guida per interpretare l’articolo 5 dell’AI Act, sono 135 pagine per un singolo articolo. Quali sono le conseguenze di questa tendenza regolatoria?

L’AI è un fenomeno in rapidissima evoluzione. Se adottiamo regole troppo rigide, rischiamo di frenare l’innovazione e di lasciare il campo ad altri attori globali, come Stati Uniti e Cina, che hanno un approccio più dinamico. L’Europa deve difendere i propri valori, ma senza adottare un atteggiamento iperprotettivo che ci marginalizzi nella competizione tecnologica globale. È necessario un ‘fine tuning’ delle normative, per garantire flessibilità ed efficacia.

L’AI Act è un passo avanti importante, perché introduce un quadro regolatorio omogeneo. Tuttavia, manca ancora una visione d’insieme che unifichi le decine di atti normativi già esistenti, creando incertezza giuridica e aumentando i costi amministrativi per le aziende. Servirebbe un testo unico delle politiche digitali europee, in modo da semplificare le procedure e incentivare l’innovazione senza sacrificare la protezione dei diritti.

Anche il Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale dedicata alla tutela dei diritti umani, ha pubblicato una convenzione quadro sull’AI

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E anche quel testo segue lo schema di cui stiamo parlando: nel preambolo parla di diritti da tutelare e da promuovere. Poi negli articoli sparisce la promozione e resta solo la tutela. Noto in generale un approccio eccessivamente “illuministico” (e io non sono certo un oscurantista): pensiamo di poter prevedere (ed elencare) tutti i possibili rischi in anticipo, ma i nostri ordinamenti consentono anche un intervento ex post, quindi anche su questo fronte serve un bilanciamento.

Nel rapporto si sottolinea il pregiudizio nei confronti delle imprese private nello sviluppo dell’AI

Esiste una tendenza a vedere con sospetto il ruolo delle aziende nel campo dell’IA, anche nello stesso regolamento europeo, mentre si attribuisce maggiore fiducia (e campo libero in termini normativi) a progetti open source e accademici. Ma le imprese private hanno storicamente giocato un ruolo cruciale nello sviluppo tecnologico, e regolamentarle non significa demonizzarle. Dobbiamo garantire un mercato equo e concorrenziale, con regole chiare e strumenti di controllo efficaci, ma senza ostacolare lo sviluppo.

Quali cambiamenti suggerisce in termini di governance per migliorare il bilanciamento tra protezione e innovazione?

Dobbiamo rivedere il ruolo delle autorità di regolazione. Attualmente, le autorità come il Garante della Privacy sono focalizzate sulla protezione, ma dovrebbero avere anche un mandato di promozione dell’innovazione. Inoltre, è essenziale snellire le procedure: oggi, per far approvare un modello di AI in Europa, servono mesi o anni, mentre la tecnologia evolve in settimane. Occorre garantire certezza nei tempi e un confronto costante tra imprese, istituzioni e cittadini.

In sintesi, quale messaggio vuole trasmettere con il suo rapporto?

L’IA è uno strumento che può migliorare enormemente la nostra società, ma il modo in cui la regolamentiamo deve essere equilibrato. Se continuiamo a considerarla solo come una minaccia, perderemo l’occasione di sfruttarne i benefici. Dobbiamo sviluppare un diritto dell’innovazione che bilanci protezione e promozione dei diritti, adottando un approccio pragmatico e dinamico. L’Europa non può permettersi di rimanere indietro.”

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Il dibattito è aperto e le implicazioni sono enormi. L’auspicio è che la riflessione proposta nel rapporto possa contribuire a costruire una regolamentazione più efficace, in grado di garantire una crescita tecnologica che sia al servizio delle persone, senza paura ma con consapevolezza. (di Giorgio Rutelli)



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