Di Marina Poci per il numero 389 de Il7 Magazine
Circa 4mila tonnellate di rifiuti provenienti dalla Campania (e in misura minore dalla Puglia) dirottate dal Lazio per essere smaltite illegalmente nella stessa Puglia, in Calabria e in Basilicata, spesso in aree di particolare pregio naturalistico, affacciate su strade comunali e provinciali a ridosso delle aree rurali più isolate. Capannoni industriali inutilizzati e persino terreni di ignari privati diventati autentiche discariche abusive a cielo aperto, nelle quali i rifiuti, una volta scaricati, in alcune circostanze venivano anche dati alle fiamme, rendendo l’aria irrespirabile. Un illecito profitto quantificato più o meno in un milione di euro, somma di cui è stato disposto il sequestro finalizzato alla confisca. Nove persone sottoposte agli arresti domiciliari (su un totale di quarantatre indagati, quattro dei quali brindisini) tra autisti, organizzatori dei trasporti, intermediari e gestori formali e di fatto delle società responsabili, per i quali, oltre ai gravi indizi di colpevolezza, è stata ravvisata l’esigenza cautelare del pericolo della reiterazione di reati della stessa specie e di alterazione delle fonti di prova. È quanto emerso dall’inchiesta condotta dai Carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico (NOE) di Lecce, Bari e Napoli sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Lecce, inchiesta sfociata poi nell’ordinanza cautelare emessa dalla Giudice per le indagini preliminari del Tribunale salentino Tea Verderosa ed eseguita alle prime luci dell’alba del 5 febbraio nelle province di Bari, Taranto, Trani/Barletta, Brindisi, Caserta, Napoli, Avellino, Cosenza, Matera, Campobasso, Viterbo e Potenza, dai Carabinieri del Gruppo per la Tutela dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica di Napoli insieme ai militari dei Comandi Provinciali territorialmente competenti.
Gli indagati sono ritenuti responsabili del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, contestato con l’aggravante ambientale e del reato di impedimento al controllo (ai sensi del codice penale), nonché del reato di gestione non autorizzata di rifiuti finalizzata allo smaltimento (ai sensi del Testo Unico Ambientale) ,“per avere, in unione e concorso tra di loro, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, prelevato, ricevuto, trasportato, intermediato e comunque gestito abusivamente e clandestinamente un ingente quantitativo di rifiuti, rinvenienti da processi di trattamento meccanico di rifiuti contraddistinti dal codice EER 19.12.12., tutti illecitamente smaltiti mediante abbandono in siti non autorizzati, diversi dal luogo indicato nei formulari di identificazione rifiuti, tutti falsamente compilati al fine di eludere l’attività di controllo”.
Sono quattro, come detto, i brindisini coinvolti: due donne (la legale rappresentante di una società cooperativa di trasporti e l’amministratrice unica di una società a responsabilità limitata che ebbe il ruolo di intermediaria tra le ditte produttrici dei rifiuti e quelle delegate al trasporto), nonché due uomini, autisti della società cooperativa, incaricati di eseguire le operazioni di carico, trasporto e scarico dei rifiuti in alcuni dei sessantatre complessivi episodi contestati dalla DDA. Al più anziano dei due, un 76enne, è contestata la recidiva infra-quinquennale (nel senso che i delitti di cui è attualmente accusato sono stati commessi a meno di cinque anni da una precedente condanna per delitti non colposi).
L’ingente traffico illecito di rifiuti speciali e non, “perpetrato in modo sistemico” dal gruppo criminoso individuato dagli investigatori attraverso un’indagine condotta con l’ausilio di attività tecniche (intercettazioni di conversazioni e video riprese) e pedinamenti, avrebbe individuato nell’impianto di smaltimento EKO s.r.l., situato a Onano, in provincia di Viterbo, il “vero perno di rotazione di tutta la filiera illecita”, tanto che gli investigatori campani, anche in relazione a episodi precedenti di illecito smaltimento di rifiuti, erano soliti parlare di “Sistema Botticelli”, riferendosi evidentemente a Botticelli Claudio, amministratore unico della suddetta EKO, ritenuto tra gli organizzatori dell’associazione a delinquere oggetto dell’inchiesta (nonché una delle nove persone attinte dalla misura cautelare degli arresti domiciliari).
Stando alla prospettazione della DDA, infatti, gli indagati, con lo scopo di conseguire il consistente risparmio di spesa derivante dalla mancata attivazione delle corrette procedure di gestione dei rifiuti prescritte dalla legge,
avvalendosi di falsi documenti amministrativi (cioè autorizzazione al trattamento dell’impianto ricettore, ovvero formulari di identificazione dei rifiuti, i cosiddetti FIR), erano in grado di attestare un conferimento all’interno dell’impianto dell’azienda del Viterbese facente capo a Botticelli. Peccato, però, che l’impianto di conferimento di EKO s.r.l. non fosse operativo, in quanto sottoposto a sequestro preventivo e quindi inidoneo a ricevere rifiuti di qualsivoglia natura sin dal novembre del 2019 (in esecuzione di provvedimento emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Viterbo).
I rifiuti speciali (codici EER 191212 e 150106), invece, organizzati in balle reggiate composte prevalentemente da scarti tessili e scarti provenienti dal trattamento dei rifiuti speciali/industriali e frazione indifferenziata di RSU, dopo essere stati prelevati dai luoghi di produzione, piuttosto che prendere la via del Lazio, venivano dirottati verso Sud, trasportati e abbandonati a Villapiana e Cassano allo Ionio (comuni della provincia di Cosenza), Ferrandina (nel Materano) e Pulsano, in provincia di Taranto, con ciò realizzando una vera e propria filiera del commercio illecito di rifiuti che ricomprendeva la fase di consegna, ricezione nonché intermediazione, trasporto e smaltimento abusivo. A dimostrarlo sarebbero non soltanto le intercettazioni telefoniche delle conversazioni tra gli indagati, ma anche il tracciamento degli smartphone dei trasportatori (che ne hanno seguito i percorsi attraverso le celle telefoniche agganciate) e dei localizzatori satellitari (gps) installati sui camion.
Per spiegare il meccanismo, gli investigatori parlano di “procedure collaudate, fondate sulla classificazione fittizia dei rifiuti da parte degli impianti di produzione, con redazione di falsa documentazione indicante siti di destino inesistenti, che consentisse di giustificare il trasporto dei rifiuti ed il successivo illecito abbandono in siti abusivi, di volta in volta individuati”. Una struttura criminale che funzionava in maniera sistematica anche grazie alla vicinanza con la Campania, principale area di provenienza dei rifiuti, e alla “vastità e l’orografia del territorio pugliese”.
Oltre alla somma di un milione di euro, sequestrata per equivalente, il provvedimento di sequestro ha interessato tre società di trattamento/recupero rifiuti – non le due facenti capo agli indagati brindisini, ma una di Giugliano (Napoli), una di Onano (Viterbo) e una di San Martino Valle Caudina (Avellino) – nonché tre capannoni industriali (a Pulsano, provincia di Taranto e Cassano allo Ionio, nel Cosentino), due terreni agricoli in Villapiana, sempre nel Cosentino e ben venticinque automezzi (rimorchio e motrice).
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