Totò Riina: il più sanguinario boss della mafia

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Fu condannato a 26 ergastoli e 30 anni di reclusione

di Adriano Marinensi

E’ stato il mafioso che più mafioso non si può, capo dei capi di Cosa nostra. Più crudele di un lupo affamato (di potere), più astuto di un furetto. Il suo curriculum, scritto nelle pagine degli atti giudiziari, annovera una serie infinita di violenze, omicidi, vendette a danno di nemici ed amici. Sfidò lo Stato con fredda determinazione. Latitante dal 1970 al 1993, ha subito 26 ergastoli e 30 anni di galera. Anche per le stragi di Capaci e Via D’Amelio, l’assassinio del gen. C. A. Dalla Chiesa-

Di cognome faceva Riina(con due i) e di nome Salvatore, detto Totò. Le malelingue si azzardavano a soprannominarlo u’curtu per via della mediocre statura. Guai però a dirglielo in faccia. Era nato, nel 1930, a Corleone, nome emblematico nell’ “albo d’oro” della mafia siciliana. Utilizzato, non per caso, anche nel film Il Padrino con Marlon Brando e Al Pacino, girato nel 1972, per la regia di F. F. Coppola e tratto dal romanzo omonimo di Mario Puzo. Origine, nient’affatto benestante la sua, di zappatori, i viddani; rimase ancora adolescente orfano di padre. Il genitore stava trafficando, nel cortile di casa, con una bomba che fece buum!

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Totò dovette assumere presto la responsabilità da grande, in famiglia, quando ancora aveva i calzoni corti e i calzini fin sotto il ginocchio. Ebbe l’obbligo di crescere in fretta e divenne mafioso già da giovane. Fece parte di quella Sicilia che, con il facilitatore Lucky Luciano, aprì le porte allo sbarco degli Alleati (10 luglio 1943). Molti furono i capi mafiosi che offrirono la loro collaborazione in cambio di denaro e potere, guadagnati sul campo senza combattere.

Totò si inserì nella banda che faceva capo al potente dottor Michele Navarra, anche costui nato a Corleone ed eliminato dalla concorrenza, a colpi di lupara. Era il tempo delle lotte contadine, del latifondo, dei campieri, figure tipiche che bazzicavano le campagne a cavallo, con gli stivali, la coppola e il fucile a tracolla. Il gruppo del quale faceva parte l’aspirante mafioso Totò Riina (sempre con due i) si dedicava in prevalenza all’abigeato (furto di bestiame in allevamento).

Aveva vent’anni u’ curtu quando, nel corso di una lite, uccise un coetaneo e si prese una condanna a 12 anni. Tornò a Corleone in libertà provvisoria e fece amicizia con altri tre di uguale avvenire, formando la prima immagine del clan dei Corleonesi: Riina, Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella. Avrà, negli anni successivi, un ruolo di altissimo impatto criminale.

Con i seguaci di Navarra, esponente della vecchia mafia rurale, finì subito a ferro e fuoco. Perché, nelle guerre di mafia di quel periodo, gli avversari andavano cancellati fisicamente e si moltiplicarono gli episodi di lupara bianca: uccisione segreta e scomparsa del cadavere. Il potere dei Corleonesi crebbe anche per vincoli parentali acquisiti. Esempio: Riina prese in moglie Ninetta Bagarella, sorella di Leoluca, in un matrimonio segreto (lui era già latitante) ufficiato da un certo padre Agostino Coppola, nipote dell’uomo d’onore Frank Coppola, detto Frank “tre dita”, perché le due mancanti gliele aveva tagliate lo sportello di una cassaforte durante una rapina.

Al clan, divenuto mafiosamente agguerrito, Corleone ormai andava stretto e quindi si decise il trasferimento a Palermo. La Palermo divisa in mandamenti, la Palermo dei tanti B: Bontade, Bonanno, Badalamenti, Bagarella, Brusca ed anche di Greco, Calderone, Madonia e di molte altre famiglie di rilevante spessore malavitoso. Ora, con l’aggiunta dei Corleonesi che avevano cominciato ad imporre la strategia della violenza. Un fiume di droga, raffinata a Palermo, prese la via di New York, regalando alle famiglie un mare di dollari.

Latitando, latitando, Totò ebbe tempo e occasione per mettere al mondo 4 figli, 2 maschi e 2 femmine. Quattro neonati e molti “neomorti” durante il soggiorno dei tre a Palermo (il quarto, Luciano Liggio se n’era andato a Milano) e l’imposizione della loro strategia della violenza. Lo Stato, negli anni ’70 e ’80 fu molto impegnato nella guerra scatenata dalle brigate rosse e nere e il controllo delle vicende siciliane risultò un poco allentato. Nell’arco di poche stagioni, si contarono centinaia di morti ammazzati, compresi nomi importanti ed eccellenti. A cadere furono molti “servitori dello Stato”, appartenenti alla Magistratura ed alle Forze dell’ordine. Totò Riina, divenuto il Capo dei capi, si rese protagonista della “teoria omicida” instaurata dentro e fuori le fila della nuova mafia. Dalla Cupola gestiva il potere e gli affari. Una volta ebbe l’improntitudine di dichiarare, in un’aula di Tribunale, di non conoscere l’organizzazione di Cosa nostra.

La svolta si ebbe quando la Magistratura decise di creare il famoso Pool antimafia che affrontò il fenomeno malavitoso non più con indagini separate, ma come lavoro specializzato di gruppo. Nacque il Pool da una idea del giudice Rocco Chinnici (ucciso nel 1983), e reso operativo da Antonio Caponnetto, con la partecipazione di Falcone e Borsellino. Affrontò la mafia dal 1983 al 1988 e fu il “motore istruttorio” del Maxiprocesso celebrato nell’Aula bunker dell’Ucciardone, a Palermo. Lo chiamarono Maxi perché caratterizzato dai grandi numeri. Una ordinanza di rinvio a giudizio di 8.500 pagine, divisa in 40 volumi, a carico di 475 imputati, una sterminata platea di avvocati e di giornalisti. Prima udienza il 10 febbraio 1986.

Protagonista di primo piano il dissociato (così volle essere chiamato, non reo pentito) Tommaso Buscetta, il quale aveva rifiutato i metodi omicidi dei nuovi uomini d’onore. Descrisse, con nomi e cognomi, l’organizzazione di Cosa nostra ed ebbe il merito di rivelare le colpe dei vertici e di molti affiliati. La Pubblica Accusa chiese 28 ergastoli, compresi tutti i componenti della cosiddetta Cupola, qualcosa meno di 5.000 anni di carcere (per la storia, 46 secoli, 75 anni e 11 mesi).

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Nel corso della requisitoria finale, uno dei P.M. disse: “Ciò che vi chiedo non è la condanna della mafia, già scritta nella storia e nella coscienza dei cittadini, ma la condanna di mafiosi raggiunti da elementi certi di responsabilità”. C’erano state, sino a quel momento, 349 udienze durante i 21 mesi di processo. La Corte emise una sentenza con 346 condanne: 19 ergastoli, 2665 anni di reclusione e 11 miliardi e mezzo di multe. Era il 16 dicembre 1987. Il 30 gennaio 1992, la Cassazione confermò quasi tutto il “castello accusatorio”.

Totò u’ curtu non era nelle gabbie dell’Ucciardone perché ancora latitante e tale rimase sino al 15 gennaio 1993, giorno dell’arresto. Lo presero, durante lo svolgimento dell’operazione belva, un mattino, poco dopo uscito di casa, a Palermo. L’uomo lupo, che aveva insanguinato la Sicilia e l’Italia, è morto il 17 novembre 2017, recluso a Parma al 41 bis.



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