Meloni vuole “bonificare” le agenzie di sicurezza. Ecco un elenco di fatti strani e di pasticci: da Almasri ad Abedini, dai cronisti spiati fino all’auto di Giambruno. Un sistema di schegge impazzite, tra Mr Bean e John Le Carré
Ora altissime fonti di governo ci dicono che Giorgia Meloni voglia “bonificare” (questa l’espressione usata) gli apparati di sicurezza. Di sicuro qualcosa non va. Poiché da sempre il complotto è il più banale rifugio del cretino, nonché il più cretino dei rifugi, e poiché l’Italia è un paese dove il Cretino Collettivo evoca complotti dalla mattina alla sera, bisognerebbe evitare di cercare una unità nella complessità. Tuttavia nell’ultimo anno e mezzo, con una preoccupante accelerazione negli ultimi mesi, tra i servizi segreti e gli apparati di sicurezza in generale, si è verificata una serie di fatti – sospesi tra il pasticcio e il mistero, tra Mr. Bean e John Le Carré – che merita di essere messa in fila. A segnalare che più di qualcosa, anche se che cosa non è ben chiaro, non funziona. L’altro giorno Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, in una relazione al Copasir, l’organismo parlamentare di controllo dei servizi segreti, ha pronunciato una frase che suonava all’incirca così: “Se i servizi segreti sono ogni giorno sulle prime pagine dei giornali, qualcosa non va”. Ecco. Appunto. Ma cosa sta succedendo? Ecco un elenco di fatti apparentemente scollegati, chissà, ma che rendono l’idea di un certo subbuglio. A cominciare dal fatto, decisamente non secondario, che il 15 gennaio, Elisabetta Belloni, il direttore del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza della Repubblica, ovvero l’organismo che dirige e coordina i servizi segreti interni ed esterni, ha lasciato il suo incarico per ragioni ancora non del tutto chiare. Ma andiamo in ordine cronologico.
Il 30 novembre 2023 due persone venivano viste armeggiare da un agente di Polizia intorno all’automobile del giornalista Mediaset Andrea Giambruno parcheggiata davanti alla residenza della sua ex compagna, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Identificate dalla polizia di stato queste due persone si qualificavano come “colleghi” mostrando tesserini dell’Aisi, servizio segreto interno. Nello stesso periodo a Giambruno, come raccontato all’epoca dal Foglio, veniva rubata un’altra automobile, usata anche dalla premier, una Fiat 500 poi riconsegnata dagli strani ladri sulla via Tuscolana a pochi metri da un commissariato di polizia: l’auto intonsa ma con l’asse del motore smontato come se qualcuno avesse rimosso un dispositivo.
A ottobre 2024 era scoppiato il già dimenticato scandalo degli accessi abusivi da parte di pubblici ufficiali infedeli nella banca dati della procura nazionale antimafia. Quegli accessi abusivi avevano riguardato un’enormità di persone famose o politicamente esposte tra cui alcuni ministri. Il 22 gennaio 2024 a Roma, davanti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone, Guido Crosetto, ministro della Difesa, spiega di essere “preoccupato”. Il ministro Crosetto, in quei giorni, ritiene che l’Aise, Agenzia informazioni e sicurezza esterna, non l’avrebbe informato su fatti importanti. E la cosa viene messa a verbale: “Non ho notizie specifiche ma i miei rapporti con l’Aise in precedenza non erano particolarmente buoni perché ho contestato in più di un’occasione mancate informazioni al ministero della Difesa che avrebbero potuto anche creare problemi alla sicurezza nazionale”.
Il 16 dicembre, all’aeroporto di Malpensa, viene arrestato Mohammad Abedini Najafabadi, ingegnere iraniano. E’ accusato negli Stati Uniti di terrorismo e di violazioni legate alla tecnologia dei droni. E’ un pezzo grosso. Viene arrestato in Italia, ma nessuno negli apparati di sicurezza fa scattare un allarme che avverta l’ambasciata italiana a Teheran di rischi su possibili ritorsioni affinché prenda provvedimenti e avverta i cittadini italiani presenti in Iran. Tre giorni dopo infatti, il 19 dicembre, con un pretesto la polizia iraniana arresta la giornalista del Foglio Cecilia Sala e instaura un negoziato per riavere Abedini che mette in difficoltà il governo impegnato nella liberazione di Sala e costringe la presidente del Consiglio Meloni e il governo italiano a intavolare delicate trattative anche con gli Stati Uniti. L’8 gennaio Cecilia Sala atterra libera a Ciampino su un volo dei servizi segreti italiani.
A Ciampino si presentano a sorpresa anche i Ros dei Carabinieri che irritualmente, e senza delega dell’autorità giudiziaria, interrogano la giornalista per l’enormità di quattro ore assumendo informazioni sensibili e segrete che dopo qualche giorno in forma edulcorata sono comparse su due quotidiani. Quei Carabinieri non dovevano essere lì, proprio come non si erano presentati a novembre del 2022 quando era stata liberata Alessia Piperno dal carcere iraniano di Evin. “Guerra tra apparati”, si disse. “Dispetti”. Ma non finisce qua.
Arriviamo alla cronaca recentissima. Il 19 gennaio la Digos arresta a Torino il generale libico Njeem Osama Almasri Habish. Come l’ingegnere iraniano Abedini, anche Almasri è un pezzo grosso. Enorme. E’ il capo della Polizia giudiziaria, è un funzionario che opera con l’apparato di deterrenza per il contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata libico. Un esponente di primo piano di un governo (o regime) con cui l’Italia ha rapporti consolidati da tempo: dai flussi migratori, al petrolio, al gas. E infatti, come Abedini, viene rispedito nella sua patria per ragioni (pur non rivendicate dal governo italiano) di stato. Ma la domanda vera è: perché è stato arrestato visto che il suo fermo avrebbe comportato un grave imbarazzo politico? Davvero i vertici della Digos e della polizia, oltre a non aver inviato i documenti di arresto al ministero della Giustizia come prevede la legge, non si sono coordinati con i servizi segreti? Non sapevano chi era?
Ma in questo insieme di stranezze, pasticci e omissioni apparentemente scollegate c’è ancora altro. Il 27 gennaio, dopo un articolo che il quotidiano Domani è in grado di scrivere perché incredibilmente la procura di Roma ha inviato ad alcuni giornalisti indagati delle carte coperte da segreto, si è scoperto che i servizi segreti effettuavano controlli attraverso le banche dati riservate su Gaetano Caputi, capo di Gabinetto della premier Meloni. Perché? Che volevano? Cosa cercavano? E chi lo sa.
L’ultima vicenda poco chiara che riguarda i nostri apparati di sicurezza è di appena due giorni fa. Si è scoperto che un software spia chiamato Graphite e prodotto dalla società israeliana Paragon Solutions è stato usato per violare il telefono di almeno due cittadini italiani, un giornalista, il direttore di Fanpage Francesco Cancellato, e un attivista politico, l’ex tuta bianca Luca Casarini. Fino alla scorsa settimana questo software era in dotazione ai servizi segreti italiani ma l’azienda Paragon ha rescisso il contratto convinta del fatto che qualcuno che lavora in queste agenzie non abbia rispettato le condizioni contrattuali secondo le quali il software deve avere un utilizzo “etico” ovvero, per esempio, non può essere rivolto allo spionaggio dei giornalisti la cui libertà e riservatezza va rispettata. Almeno in democrazia. Ora può darsi che nessuno dei fatti elencati in questo articolo sia collegato da un filo rosso e che non siano tutti fatti tra di loro dipendenti. Tuttavia una certezza complessivamente emerge: più di qualcosa nel comparto sicurezza italiano non funziona, è fuori controllo o si muove secondo logiche non precisamente limpide.
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