diversificare l’export guardando a India, Vietnam e Medio Oriente

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Un piano b per salvare l’export italiano. E allentare il colpo – che arriverà, in un modo o nell’altro – dei dazi americani targati Donald Trump. Giorgia Meloni va ripetendo da settimane che il carosello di viaggi all’estero sempre più frequenti, dai voli transoceanici in direzione Washington agli accordi miliardari firmati in Arabia Saudita e negli Emirati, sono anche e soprattutto «una questione di politica interna». In ballo ci sono migliaia di posti di lavoro, investimenti e grandi partite industriali europee. Una missione messa a rischio, ha detto sempre lei, da chi «vuole disfare», cioè quel pezzo di magistratura che crede in trincea contro il governo. Salvare il commercio italiano dalle turbolenze geopolitiche è la grande sfida del suo terzo anno nella stanza dei bottoni. E adesso è scritto nero su bianco nelle nuove linee programmatiche del 2025 di Palazzo Chigi. Premessa: «Si impone una riflessione in merito alla individuazione degli strumenti più efficaci a rafforzare la competitività dell’Europa sullo scenario internazionale» si legge nel documento che detta l’agenda della presidenza per i mesi a venire, firmato dalla premier alla vigilia di Natale.

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LA MAPPA DEI MERCATI

Meloni considera cruciale aumentare «la quota di investimenti a sostegno della transizione ecologica e digitale e per l’aumento della sicurezza». E soprattutto – ecco il passaggio chiave – «la riduzione delle dipendenze esterne di natura commerciale che in molteplici ambiti – quali la fornitura delle materie prime essenziali e di tecnologie digitali avanzate come l’industria della difesa – in un contesto connotato dal perdurare di intense tensioni geopolitiche, costituiscono una potenziale minaccia per la libertà e la crescita del continente europeo». Insomma, urge studiare vie alternative.

Da un lato ribilanciando la bilancia commerciale europea con gli Stati Uniti – in deficit di più di trenta miliardi l’anno scorso – ad esempio aumentando l’acquisto di gas liquido naturale made in Usa. Ipotesi allo studio del team di Ursula von der Leyen che ha aperto un canale negoziale con la Casa Bianca e che trova l’apertura del governo italiano. Dall’altro la ricerca di nuove rotte commerciali. Da quando Trump ha vinto il 5 novembre a Palazzo Chigi si susseguono riunioni tecniche sul dossier per approntare una strategia. L’uragano Trump incombe e può fare molto male all’export italiano.

A Bruxelles, durante il Consiglio europeo informale di lunedì, la premier ha cercato di portare a miti consigli il fronte oltranzista – capitanato dalla Francia di Macron e la Germania di Scholz – deciso a rispondere a muso duro ai dazi minacciati dal Tycoon sui prodotti europei. Del 10 per cento, secondo le indiscrezioni che filtrano dagli Stati Uniti. Calma e gesso, è stato il mantra di Meloni convinta che Trump, per quanto imprevedibile, voglia anzitutto sedersi al tavolo e trattare come ha fatto con Messico e Canada dopo aver adombrato una guerra commerciale senza precedenti. Certo i documenti sulla scrivania della leader sono poco rassicuranti. La Commissione europea stima in 54 miliardi l’impatto dei dazi trumpiani solo sull’export Ue. L’Italia – che ha il 13 per cento di quell’export – rischia di pagare un conto da 7,1 miliardi. Sarebbe «uno dei Paesi Ue più esposti alle possibili ripercussioni» delle tariffe americane. Di qui l’esigenza di «diversificare» i mercati come è scritto nero su bianco nella nuova strategia di Palazzo Chigi.

Lo sguardo è puntato ad Est. Al Medio Oriente – più che alla Cina dove, ha avvisato von der Leyen, l’Ue busserà se Trump dovesse andare fino in fondo – specie al Golfo dove in un mese Meloni ha strappato accordi formato maxi. Dieci miliardi il valore delle intese siglate a Riad con bin Salman, cui si somma il patto sulle rinnovabili con Emirati e Albania annunciato ad Abu Dhabi. Mentre il leader emiratino Zayed è atteso a Roma nelle prossime settimane, gli occhi sono ora puntati sull’India di Narendra Modi e il Sud Est asiatico – vedi alla voce Vietnam – per siglare nuove intese. Una cintura di sicurezza, in attesa che si diradi la nebbia sui dazi trumpiani. È la grande priorità del 2025, spiegano le linee programmatiche di Meloni che non mancano di ricordare i ristretti margini di manovra europei dovuti ai vincoli del Patto di Stabilità.

Il governo «coniugherà le ineludibili istanze di sviluppo dell’economia con l’esigenza di contenere la crescita della spesa netta entro un tasso compatibile con il rispetto dei parametri di riferimento definiti in sede europea», annuncia la premier promettendo di mandare in porto nei tempi previsti il Pnrr. È un equilibrio precario. E dai vincoli Ue e la loro eventuale revisione dipende anche l’altra grande partita, lo scorporo degli investimenti nella Difesa cruciale per aumentare la spesa militare e rispettare la nuova asticella degli impegni Nato alzata alle stelle da Trump. Il documento di Palazzo Chigi si sofferma a lungo sull’Ue. E – sorpresa – si apre con una citazione d’onore per Mario Draghi.

Nelle linee programmatiche per il 2025 Meloni prende il suo rapporto sulla competitività a bussola delle prossime mosse italiane a Bruxelles e richiama le tre priorità di azione tracciate dal predecessore: «Innovazione, decarbonizzazione e sicurezza». C’è tempo per dettare l’agenda interna e gettare uno sguardo alle riforme costituzionali. Finora solo l’autonomia ha iniziato a camminare davvero, prima di incontrare il muro della Consulta che ha costretto il Parlamento a rimettere mano al testo. Al netto della separazione delle carriere di giudici e pm tornata caldissima in queste ore di scontro con le toghe, Meloni torna sulla “madre di tutte le riforme”. Cioè «l’adozione di soluzioni idonee ad assicurare la stabilità e la capacità decisionale dell’esecutivo, nel quadro di un solido sistema di contrappesi e garanzie». In una parola: premierato. Il tempo dirà quanto di questa agenda per il 2025 vedrà la luce. Intanto c’è un’emergenza chiamata dazi. Un pallino fisso a Palazzo Chigi. Aspettando Trump.

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