“Il marketing dell’ignoranza”, l’impoverimento etico della società secondo Paolo Guenzi

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Il marketing ha in molti casi perso la sua anima, e la sua responsabilità, dentro le aziende e anche nelle persone, portando al conseguente impoverendo del patrimonio culturale ed etico dell’intera società. E’ questa la teoria di Paolo Guenzi, Professore Associato del Dipartimento di Marketing presso l’Università Bocconi, autore del libroIl marketing dell’ignoranza“.

Il marketing dell’ignoranza

In quest’opera, l’autore con stile ironico e graffiante, a tratti amaro e provocatorio, analizza i principi ispiratori, i meccanismi di funzionamento e le conseguenze del marketing dell’ignoranza, partendo da una tesi di partenza piuttosto semplice: l’ignoranza è un prodotto di straordinario successo, e l’Italia è uno dei migliori luoghi del mondo per la sua ideazione, produzione, commercializzazione e consumo. Il nostro è un Paese pieno di problemi, ma dispone anche di molte risorse.

Abbiamo intervistato l’autore per approfondire meglio cause e principi che hanno portato al marketing dell’ignoranza, cercando di scovare un possibile antidoto a questo meccanismo che sta portando ad un impoverimento della società italiana.

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In cosa consiste il marketing dell’ignoranza? Quali sono le principali cause?

E’ un sofisticato sistema di creazione e diffusione su larga scala, nella società nel suo complesso, dell’ignoranza come un valore, una pratica giornaliera e un elemento caratterizzante della vita degli individui che ne fanno parte. E’ il frutto di una sistematica e capillare propagazione collettiva di princìpi e strumenti di marketing originariamente concepiti per migliorare i rapporti fra le imprese e i propri clienti, ma trasformatisi nel tempo in elementi fondanti del modo di pensare ed agire di una enorme fetta della popolazione. Purtroppo, quando estremizzati e dominanti, questi princìpi e strumenti generano conseguenze potenzialmente molto dannose, in particolare impoverendo il patrimonio culturale ed etico dell’intera società.

Le cause sono numerose. Tre in particolare.

La prima è l’ignoranza stessa dei consumatori (e dei cittadini in generale, se si pensa ad esempio al mondo della politica), che permette a persone astute e spesso anche competenti, frequentemente senza scrupoli, di utilizzare in modo manipolatorio princìpi e tecniche di marketing. Costoro approfittano della debolezza (informativa, o di capacità di ragionamento) di un vastissimo pubblico ignorante per perseguire i propri scopi, sovente personalistici o di parte, a discapito di quelli collettivi e, quindi, del benessere della società nel suo complesso.

La seconda causa è che molti marketing manager non dispongono delle risorse culturali (in senso ampio, quindi anche morali) necessarie per svolgere il proprio mestiere con adeguata consapevolezza delle conseguenze delle proprie scelte ed azioni, quindi in modo eticamente responsabile.

La terza è che il marketing dell’ignoranza è praticato in modo massiccio da persone che di professione non sono marketing manager. In particolare grazie alla forza comunicativa dei social network, nel mondo attuale ci sono persone estremamente ignoranti capaci di esercitare un’influenza potentissima sul modo di pensare, di sentire e di agire di un numero smisurato di individui. E molto spesso queste persone così influenti, in parte per loro natura, in parte per un ricorrente delirio di onnipotenza che quasi inesorabilmente li conquista, sentenziano e pontificano su materie di cui non sanno nulla, moltiplicando a dismisura gli effetti nefasti dell’ignoranza, e stimolando comportamenti analoghi in milioni di editori di sé stessi.

Come si è evoluto nel tempo il marketing, fino ad arrivare a questa definizione?

Credo che il marketing come pratica manageriale sia un po’ in crisi, per diversi motivi interdipendenti. Il primo è una interpretazione troppo riduttiva e circoscritta del marketing come pura e semplice comunicazione, anziché come una disciplina finalizzata a comprendere e creare valore per i clienti. A livello sistemico, della società nel suo complesso, questo porta al prevalere della forma sulla sostanza (il “futile” sull’”utile”), e quindi ad una visione distorta delle priorità personali e collettive, ed al dominio della narrazione emotiva, spesso irrealistica o addirittura manipolatoria, rispetto alla semplice rappresentazione dei fatti.

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Il secondo è una eccessiva frammentazione delle sue decisioni e attività, spesso sub-appaltate ad una pletora di agenzie e soggetti esterni iper-specializzati, ai quali manca una reale regia di fondo che possa essere effettivamente responsabilizzata sul raggiungimento degli obiettivi. La de-responsabilizzazione causata dalla micro-parcellizzazione decisionale e operativa è un altro elemento che contamina la società nel suo complesso.

Un terzo fattore è l’eccesso di ricorso a strumenti tecnologici (automatizzazione, analisi basate su algoritmi) che tendono spesso ad uniformare gli approcci fra aziende diverse ed a replicare sé stessi in realtà diverse, generando circoli viziosi di ripetitività che finiscono con il ridurre l’innovazione e le differenze. A livello sociale, il predominio assoluto di poche piattaforme tecnologiche globali crea letteralmente un problema di democrazia e di possibilità di scelta, impone standard che riducono la libertà dei consumatori e delle persone in generale.

L’adozione generalizzata del meccanismo degli algoritmi limita l’apertura al nuovo, alle opinioni altrui, in un perenne ripetersi di stimoli che riconfermano posizioni e scelte pregresse. Un quarto fattore è la disumanizzazione, spesso derivante dal ricorso acritico alla digitalizzazione, alla quale si cerca di porre rimedio affidando la propria identità di marca a testimonial esterni o a influencer e content creator spesso improvvisati ed ai quali si affida il destino dei propri prodotti e marchi.

A livello sociale questo fenomeno si trasforma in un depauperamento dei rapporti interpersonali, in un inaridimento verso il prossimo e in intolleranza. In definitiva, il marketing ha in molti casi perso la sua anima, e la sua responsabilità, dentro le aziende e anche nella società.

Perché in Italia risulta avere tanto riscontro?

Perché l’Italia, come mostrano molte ricerche, è agli ultimi posti fra i Paesi occidentali in termini di qualità e liberà di informazione, di fruizione di prodotti e servizi culturali, di capacità di elaborazione delle informazioni. Il 35% della nostra popolazione è analfabeta funzionale, cioè non sa comprendere il significato di semplici informazioni, non è in grado di fare calcoli elementari, non riesce formulare collegamenti logici fra diversi concetti. In uno scenario di questo tipo è molto difficile sviluppare capacità di giudizio e spirito critico.

Quindi si diventa particolarmente vulnerabili ai meccanismi perversi del Marketing dell’ignoranza, e non si vuole né si riesce a comprendere il valore della cultura, che non è solo conoscenza, ma anche educazione, ovvero rispetto degli altri e delle regole della convivenza civile. Questa è la dimensione etica della cultura, e anche qui il nostro Paese è purtroppo molto carente, perché storicamente ha nel suo patrimonio genetico il principio del “cura lo particulare tuo”.

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Questo individualismo è alla base di molti fenomeni sociali deleteri, dal familismo (con le sue derive mafiose, ad esempio) all’opportunismo (basti pensare alla diffusione della mentalità delle raccomandazioni e delle “spintarelle”) sino alla piaga dell’evasione fiscale, altra “eccellenza” italiana purtroppo.

Esiste “un antidoto” per difendersi dall’influenza di questo tipo di marketing?

Temo che non ci siano scorciatoie. Solo un impegno personale, quotidiano, nel cercare di creare in sé e negli altri gli anticorpi per combattere questi fenomeni. Informarsi, ragionare, confrontarsi. Sono tutte attività faticose, che richiedono tempo, sforzo. La maggior parte di noi vive in un contesto socio-culturale che rifiuta la fatica e promuove la (sovra)-semplificazione.

Dobbiamo scegliere che futuro vogliamo, e cambiare anche solo piccole azioni quotidiane per andare in quella direzione, subito, con consapevolezza e assunzione di responsabilità. Ma ne vale la pena, perché il prezzo finale delle storture del Marketing dell’ignoranza lo paga la collettività, non solo nel presente ma anche nel proprio futuro.

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