Parecchi anni fa, quando dopo la laurea feci il correttore di bozze come primo mestiere “da grande”, lavorai a una pubblicazione sulla storia delle forze armate italiane. Rimasi particolarmente colpito dalla biografia di un famoso carabiniere, che forse era Salvo D’Acquisto o qualche altro illustre eroe del nostro Paese, cambia poco: a colpirmi fu il (comprensibile) tono della biografia, che sembrava scritta da una di quelle nonne che ai nipoti perdonano tutto. Il carabiniere in questione, diceva la sua biografia, “non era portato per restare rinchiuso tra le quattro mura di una classe”, preferendo stare all’aperto invece di terminare gli studi, e “tale era il suo desiderio di libertà che un giorno decise di aprire la gabbietta del canarino dell’insegnante e farlo volare via”. Mi è tornata in mente quella biografia in questi giorni di dibattito sull’inseguimento avvenuto lo scorso novembre a Milano che ha causato la morte del 19enne Ramy Elgaml dopo uno scontro con una vettura dei carabinieri, come si evince dal filmato che la scorsa settimana è stato mostrato da tutti i giornali.
Gli eroi e le vittime
Mi è tornata in mente quella biografia perché mi sembra drammaticamente palese che anche in questa vicenda sia il punto di vista, l’opinione di chi la racconta a determinare chi siano gli eroi e chi le vittime di questa tragica storia. Se, cioè, far volare via il canarino della maestra sia la testimonianza di un ineffabile anelito di libertà o il segno di un carattere indisciplinato e incline a violare le regole. Fabrizio Gatti, il nostro direttore editoriale per gli approfondimenti, si è schierato dalla parte dei carabinieri; io, pur essendo stato cresciuto da un padre che indossava una divisa (meno prestigiosa di quella dell’Arma), non riesco a prendere una posizione netta, e anzi penso che sarebbe meglio lasciare condanne e assoluzioni alla magistratura, sopprimendo il nostro naturale istinto a schierarci da una parte o dall’altra, a giustificare o a puntare il dito a seconda delle nostre opinioni sul mondo e sulle persone. Perché, se è insindacabile che almeno per ora l’unica vittima sia il ragazzo che ha perso la vita, mi pare evidente che non ci siano eroi in questa storia.
Le ragioni dei carabinieri
Un carabiniere semplice ha uno stipendio che parte dai 1.500 euro lordi al mese, che possono diventare un po’ di più con turni notturni e festivi, e poi ci sono le indennità di servizio. Insomma, uno stipendio ai limiti dell’indecenza se si considerano le responsabilità e i rischi del mestiere: su questo siamo tutti d’accordo. Nel caso in questione, i carabinieri hanno inseguito lo scooter guidato (illegalmente) da Fares Bouzidi, dietro il quale viaggiava Ramy, per venti minuti e otto chilometri lungo le strade di Milano. Inseguire un mezzo in fuga significa mettere a rischio l’incolumità propria e dei passanti oltre a quella di chi scappa, quindi la tensione dei militari in quei momenti è più che comprensibile. Quanto alle frasi che si sentono nel video, da “vaff… non è caduto” a “è caduto? Bene” non ci sentiamo di esprimere condanne senza appello. Perché se ci pare azzardato il paragone con quello che qualunque automobilista dice quando qualcuno gli fa un torto (per il semplice fatto che se io dico “schiantati” a chi mi taglia la strada non sto, nel frattempo, effettivamente facendo manovre per farlo schiantare), è del tutto comprensibile che nella foga di quegli attimi siano state appunto pronunciate parole di sfogo. A maggior ragione se si considera che chi ha detto “è caduto? Bene” ancora non aveva compreso le conseguenze dello scontro.
Le ragioni di chi protesta
Non è comprensibile né giustificabile, invece, l’ordine impartito al passante di cancellare il video che testimoniava quanto successo. E non è una cosa da poco: stiamo parlando di servitori dello Stato che impongono a un cittadino di cancellare delle prove, una cosa che non può in nessun caso essere accettata, né in questo caso né mai, e il fatto che questa sia una prassi consolidata è lo specchio di una situazione inaccettabile innanzitutto per chi indossa la divisa, e poi per tutti noi cittadini. Eppure, questo abuso viene accettato come se fosse normale, ma non lo è.Â
Inoltre, come sottolineato dall’ex capo della polizia Franco Gabrielli, oggi delegato alla sicurezza del comune di Milano, lo stesso inseguimento non avrebbe rispettato il principio di proporzionalità , perché anche in un inseguimento bisogna rispettare delle regole precise, ma sarà appunto la magistratura a stabilire se c’è stato un abuso in tal senso, e auspicabilmente anche a punire chi ha ignominiosamente approfittato delle manifestazioni di protesta per dare adito ad azioni violente e criminali che nuocciono soltanto alla famiglia di Ramy.
Smettiamola con le tifoserie contrapposteÂ
In attesa dunque dei vari gradi di giudizio che stabiliranno se non altro una verità processuale della vicenda, sarebbe forse meglio sospendere il nostro impulso a schierarci e sforzarci di comprendere le ragioni di entrambe le parti. E la cosa gioverebbe a tutti. Sarebbe utile a chi difende l’operato dei carabinieri, e a chi protesta per una morte evitabilissima. Perché una società più sicura non la si ottiene con la repressione bensì con l’integrazione, e perché il rispetto delle forze dell’ordine è condizione primaria proprio per poter distinguere tra chi onora e chi infanga la divisa che indossa. E allora è forse meglio mettere da parte la retorica degli eroi contro i cattivi, a prescindere da chi secondo ciascuno siano gli uni e gli altri. Le tifoserie contrapposte generano inevitabilmente scontri e tensione, si finisce per vedere solo i pregi di chi abbiamo a fianco e i difetti di chi abbiamo di fronte, e alla fine non cambia niente. Lo Stato ha ucciso un ragazzo: colposamente, volontariamente, per sbaglio o per intenzione, lo stabilirà il processo. Quello che possiamo fare, quello che ognuno di noi potrebbe e dovrebbe fare, è sforzarci di comprendere le ragioni, e i torti, di tutti. A prescindere dal nostro punto di vista personale.
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