Curda, 40 anni, è stata condannata a morte per aver aiutato donne e bambini sfollati per colpa dello Stato islamico. Anche lei è rinchiusa a Evin. Il caso della nostra connazionale, che si è concluso positivamente, non può esimerci dal denunciare ciò che accade in Iran, dove l’anno scorso si sono contate 1000 esecuzioni
Il ricorso alla Corta Suprema è stato respinto. Pakhshan Azizi è condannata a morte in via definitiva dopo essere stata ritenuta colpevole di “ribellione”. La sua colpa? La donna curda di 40 anni avrebbe aiutato donne e bambini sfollati per colpa dello Stato Islamico e ospitati in campi nel nord-est della Siria e nella regione del Kurdistan iracheno. Dopo l’arresto, avvenuto nell’agosto del 2023, Pakhshan era stata sottoposta a torture e maltrattamenti durante gli interrogatori per indurla a “confessare” legami con gruppi di opposizione curdi, da lei ha ripetutamente negati.
È detenuta nell’ala femminile del carcere Evin di Teheran, lo stesso dove è stata rinchiusa Cecilia Sala. La positiva conclusione della sua vicenda non può esimerci dal denunciare le tremende condizioni in cui versano le carceri iraniane né può distrarci dal fatto che in Iran le esecuzioni capitali hanno toccato la cifra impressionante di quasi 1.000 giustiziati nel 2024! Né dal pretendere che il nostro Paese, che in quattro e quattr’otto ha liberato una sua cittadina, liberi anche i cittadini iraniani detenuti in Iran, vittime della repubblica islamica della forca! A partire da Pakhshan Azizi che rischia di aggiungersi alla lunga lista di donne impiccate, con il numero record nel 2024, secondo il monitoraggio di Nessuno tocchi Caino, di cui 28 giustiziate in segreto.
C’è una sorta di tabù nel mondo nell’eseguire sentenze di morte nei confronti del genere femminile. Ma l’Iran non conosce tabù. Il record di esecuzioni di donne è la cifra della considerazione che questo regime ha delle donne, soggetti vulnerabili in un sistema giudiziario ingiusto e particolarmente crudele nei confronti di quelle che esprimono istanze di libertà. In soli 4 anni, il numero delle donne giustiziate in Iran è raddoppiato rispetto alle 17 del 2021. Le esecuzioni compiute nel 2024 sono state quasi 1.000: 993 secondo Iran Human Rights Monitor (IHRM), 967 secondo Nessuno tocchi Caino. Di rilievo è anche la cifra della vergogna che lo stesso regime prova per questa mattanza, le esecuzioni tenute segrete: 915 su 993, vale a dire il 91,2%. Solo 78 (8,8%) quelle rese pubbliche dal regime. Note sono di sicuro le 4 esecuzioni effettuate in pubblico quale spettacolo volto a scoraggiare il dissenso e sopprimere ogni opposizione.
Non ci sono solo le donne, nel calcolo complessivo, andrebbe inserito il numero dei 6 minorenni (8 secondo Nessuno tocchi Caino) tutti giustiziati in segreto. Incalcolabile è inoltre la disumanità insita nel lasciare all’oscuro le famiglie fino a che l’esecuzione è compiuta e nel convocare le madri a recuperare i corpi dei loro figli, quando il collo gli è ormai già stato tirato. Al numero dei minorenni si dovrebbe aggiungere quello dei 14 detenuti politici che sono stati impiccati dal regime, la metà in segreto. Almeno 61 sono quelli che sarebbero stati condannati a morte nell’anno appena concluso. Alla terribilità delle esecuzioni capitali si somma l’orrore del ricorso alla tortura come metodo per estorcere confessioni e punire il dissenso e l’orrore delle conseguenze a lungo termine sulla salute fisica e mentale anche a fronte di una sistematica mancanza di cure. Una prassi che colpisce in particolare i detenuti politici.
Conosco personalmente le storie strazianti di alcuni di loro, quelle degli appartenenti alla resistenza iraniana guidato proprio da una donna, Maryam Rajavi, il cui movimento ha pagato il prezzo più alto in termini di vite umane nella sua lunga storia di opposizione al regime, in particolare con l’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo iraniano subendo massacri e carcerazioni. Il 7 gennaio scorso sono state confermate le condanna a morte di due di loro: Behrouz Ehsani, 69 anni, prigioniero politico dagli anni ‘80, riarrestato a Teheran nel dicembre 2022 e Mehdi Hassani, 48 anni, arrestato a Zanjan nell’ottobre 2022. Entrambi sono stati trasferiti nel reparto 209 della prigione di Evin, dove sono stati sottoposti a torture fisiche e psicologiche. Fanno parte di quel gruppo di condannati a morte iraniani che danno corpo, ormai quasi da un anno, ogni martedì alla campagna contro le esecuzioni con un giorno di sciopero della fame.
Dal luogo più buio che esista, il braccio della morte dell’Iran, sono riusciti a diffondere e far crescere l’adesione all’iniziativa nonviolenta dentro e fuori il Paese. Io stessa ogni martedì sciopero con loro e per loro e sarebbe bene che lo facessimo in tanti. A riprova della forza che, oltre ogni brutalità e violenza propria degli apparati militare e di potere, promana dalla coscienza orientata ai diritti umani fondamentali. Quella stessa coscienza che, nel dicembre scorso, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha fatto lievitare il numero dei Paesi favorevoli alla Risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali. Perché la soluzione al problema Iran risiede nella coscienza, che resta l’organo di conoscenza più potente e che ci orienta verso gli ultimi, i dimenticati nelle carceri da cui non basta salvarne uno o una come nel caso di Cecilia Sala ma occorre salvarli tutti. Per salvare noi stessi.
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