Inchiesta Venezia, la confessione dell’ex assessore Renato Boraso: «Soldi dagli imprenditori per influire sui tecnici»

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Alberto Zorzi

Il primo verbale del politico arrestato per corruzione lo scorso luglio: «Sono pronto a pagare per i miei errori»

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«Il mio errore è stato quello di utilizzare la mia figura di assessore per influenzare i tecnici, senza però indurli a prendere posizioni contrarie alla legge ma per seguire le pratiche che mi stavano a cuore». E ancora, riferito al rapporto con l’imprenditore dell’impiantistica Francesco Gislon, con la cui società Mafra ha ammesso di aver avuto un vero e proprio rapporto contrattuale: «Questi prese a chiedermi informazioni privilegiate, che ho esaudito sfruttando il mio ruolo assessoriale e chiamando i tecnici. Ammetto di aver dichiaratamente fatto valere il mio ruolo politico».

Gli «errori»

Eccola qui la confessione di Renato Boraso. È il 19 agosto scorso e l’ex assessore alla Mobilità del Comune di Venezia, arrestato per corruzione un mese prima nel maxi-blitz del 16 luglio, si presenta per la prima volta davanti ai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini, accompagnato dal suo avvocato Umberto Pauro. E se nelle parole resta prudente, parlando sempre di «errore» e tenendo a precisare di non aver mai costretto i tecnici a violare la legge («è evidente che chi svolge il mio ruolo non può interferire su atti e provvedimenti amministrativi»), alla fine il fatto storico non lo può negare, dopo due anni di intercettazioni con il trojan, anche se per la difesa sarebbe un traffico illecito di influenze, perché la maggior parte delle pratiche non riguardava il suo assessorato: «Ammetto di aver preso denaro da imprenditori – afferma Boraso – In alcuni casi per favorire contratti immobiliari nonché la mediazione venendo compensato come consulente. Il mio errore è che mi avevano promesso altre dazioni legate al successivo sviluppo delle iniziative immobiliari degli acquirenti, esaudendo le loro richieste di intercedere presso gli uffici incaricati di approvare i provvedimenti edilizi». In altri casi, come Mafra, era una sorta di «consulente aziendale» tour court. «Ho fornito in tempi rapidissimi informazioni agli imprenditori che me ne facevano richiesta e talora quasi contestualmente ai provvedimenti e alle decisioni di giunta», spiega.




















































Il «pentimento»

«Sono pronto anche a risarcire e rimediare ai miei errori, non avrei dovuto farmi coinvolgere dalle richieste di informazioni e di intervento», dice Boraso, che poi tocca alcuni dei casi di cui era accusato, in quel momento una dozzina (ora destinati a salire): nelle settimane successive avrebbe svolto altri quattro interrogatori-fiume, per un totale di circa 40 ore. Parla della gara per la gestione delle multe, in cui ha cercato di favorire la Open Software di Stefano Comelato, che a suo dire «insisteva molto per essere aiutato a incidere nel capitolato e bando di gara per rimuovere le caratteristiche che favorivano la ditta aggiudicataria del servizio». «Se avessi voluto davvero condizionare la gara avrei chiamato direttamente in singoli commissari», si difende però. Ammette anche di averlo messo in contatto con Stefania Moretti, moglie del sindaco Luigi Brugnaro e titolare dell’agenzia immobiliare Anamù per vendere 14 appartamenti che Comelato aveva realizzato a Salzano.

Il terreno dei Pili

«Ogni tanto chiedevo al sindaco a che punto stavano le pratiche che mi interessavano. Chiedevo a Ceron (Morris, capo di gabinetto e direttore generale di Ca’ Farsetti, ndr) o a Brugnaro perché erano i primi a sapere a che punto era una pratica», spiega Boraso ai pm. Ma sul sindaco e sull’affare dell’area dei Pili nega di sapere qualcosa di più («sono stato sempre escluso dagli incontri, della trattativa ho saputo dai giornali»), anche se sottolinea il conflitto di interessi, quando svanita l’ipotesi di acquisto da parte del magnate di Singapore Ching Chiat Kwong si parlò di realizzare nell’area a inizio Ponte della Libertà un hub di traporti. «Nelle varie riunioni ho visto presenti Brugnaro, Ceron e talune volte anche Donadini (Derek, vice di Ceron, ndr) e non ho memoria che uno dei tre si sia sottratto alla discussione affermando di avere interesse su quei terreni». Parlando delle sponsorizzazioni di alcune aziende per la Reyer, dice che anche Ceron le sollecitava «perché continuava ad avere rapporti con la società, da cui proviene». Peraltro, dice Boraso, «come consulente immobiliare devo dire che io non avrei mai comperato quel terreno, né avrei suggerito di comprarlo poiché ha una situazione ambientale che rende insostenibile qualsiasi piano economico e finanziario. A oggi la bonifica costerebbe almeno 4 milioni di euro ad ettaro». E fa sorridere che quando Brugnaro, nel 2018, parlò della proposta di Ching, «non mi sono permesso di esporre le mie valutazioni, perché non lo avrebbe gradito sentendosi un imprenditore di successo: non avrebbe mai ammesso di aver fatto un investimento sbagliato»,

L’accusatore Vanin e Palazzo Papadopoli

Dei Pili poi gli parlò Claudio Vanin, il «grande accusatore» dell’inchiesta. Gli spiegò dei progetti da lui fatti e che non gli erano stati pagati. Ma Boraso racconta che ne aveva parlato con Donadini, l’architetto Fabiano Pasqualetto e Luis Lotti, l’uomo di Ching in Italia, che avevano negato tutto. «Lui mi minacciò di rivolgersi a Report», dice Boraso di Vanin. E così inquadra la presunta tangente da 72 mila euro che per i pm era la sua ricompensa per aver ridotto di oltre 3 milioni il prezzo di Palazzo Papadopoli, comprato da Ching. «Era un incarico per reperire opportunità di investimento, ho fatto una relazione – si difende l’ex assessore – Sulla riduzione del prezzo del palazzo non ho avuto alcun ruolo».

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16 gennaio 2025

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