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“qAID” è un progetto cofinanziato dalla Commissione Europea all’interno dell’Internal Security Fund 2021-2027. Coordinato dal Centro di Scienze della Sicurezza e della Criminalità delle Università di Trento e di Verona, il progetto si propone di promuovere la trasparenza e prevenire la corruzione. A raccontare l’ambizioso progetto è Beatrice Rigon, dottoranda della Scuola di Studi Internazionali e vincitrice di una borsa di studio finanziata nell’ambito del progetto qAID.

Dottoressa Rigon, vuole raccontarci in breve di cosa si occupa il progetto qAID e quali sono i suoi obiettivi?

«Come suggerisce il nome, il progetto si occupa di sistemi Aid, utilizzati per raccogliere le dichiarazioni di asset e interessi dei funzionari pubblici. Questi sistemi sono considerati tra i più importanti strumenti nella lotta alla corruzione e sono impiegati da più di 160 paesi in tutto il mondo. La loro funzione è prevalentemente quella di raccogliere informazioni sui beni patrimoniali, le fonti di reddito e gli interessi di chi lavora nella pubblica amministrazione, anche allo scopo di rafforzare la fiducia della popolazione in queste figure e più in generale nelle istituzioni. L’obiettivo generale del progetto qAID è quello di rendere i sistemi nazionali Aid più efficaci ed efficienti».

A che punto è il progetto? Ci sono stati risultati significativi?

«Abbiamo appena concluso la prima fase del progetto, nella quale ci siamo concentrati sulla mappatura e sull’analisi dei sistemi negli stati membri e candidati dell’Unione Europea e abbiamo raccolto le informazioni necessarie attraverso un questionario online somministrato alle agenzie nazionali anticorruzione. Il questionario si è focalizzato su quattro punti fondamentali. Innanzitutto, sulle principali caratteristiche dei sistemi, ad esempio chi deve presentare la dichiarazione e quali devono essere i suoi contenuti. In secondo luogo, sui meccanismi di verifica e su quelli per l’analisi del rischio delle dichiarazioni. In questo caso ci siamo chiesti anche se questi meccanismi siano o meno digitalizzati ed eventualmente a quale livello. Infine, sull’eventuale previsione di metodi per la misurazione dell’impatto dei sistemi e della loro efficacia.
I risultati hanno evidenziato un elevato livello di eterogeneità tra i paesi presi in esame. Allo stesso tempo sono emersi diversi punti di contatto che permettono senz’altro di identificare delle buone pratiche. Tra queste, la disponibilità di piattaforme digitali per la consegna delle dichiarazioni, la pubblicazione delle dichiarazioni e la loro accessibilità al pubblico».

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In che modo è organizzata la collaborazione con i partner europei? Quali vantaggi offre lavorare in un contesto internazionale?

«Oltre al Centro di Scienze della Sicurezza e della Criminalità delle università di Trento e Verona, che è il coordinatore del progetto, sono coinvolti partner da quattro diversi paesi. L’Agenzia nazionale anti-corruzione (Anac) in Italia, l’Agenzia nazionale rumena per l’integrità (Ani), il Segretariato della Regional anti-corruption initiative (Rai) con sede in Bosnia-Erzegovina (che condurrà attività anche in Croazia e Macedonia del Nord) e il Centre for the study of democracy (Csd) in Bulgaria.
Il progetto si basa fortemente sulla sinergia tra le competenze multidisciplinari di ricerca e quelle invece più tecnico-operative dei paesi coinvolti. Uno dei vantaggi è dunque sicuramente quello di avere a disposizione conoscenze e competenze molto diverse. Un altro vantaggio è la possibilità di poter fare affidamento su contatti diretti in più stati, il che ci ha permesso di raccogliere informazioni e dati che probabilmente, lavorando solo dall’Italia, sarebbero stati molto più difficili da reperire».

Dal momento che il progetto coinvolge da vicino molti paesi, quali differenze avete riscontrato nell’approccio al problema della corruzione nella pubblica amministrazione?

«Il quadro generale è molto eterogeneo, in particolare abbiamo riscontrato differenze tra gli stati membri e gli stati candidati. Questi ultimi impongono dei requisiti più ampi, estendendo l’obbligo di dichiarazione a diverse categorie di soggetti ed includendo un maggior numero di asset e di interessi nella dichiarazione. Negli stati membri si riscontra invece un avanzamento maggiore dal punto di vista della digitalizzazione».

Quali sono state le principali sfide incontrate durante il progetto? Come le avete affrontate?

«Sicuramente riuscire a coinvolgere così tanti paesi non è stato semplice e da questo punto di vista è stato fondamentale il lavoro dei partner. Le loro reti di contatti e la collaborazione dell’Eu Network against corruption ci hanno permesso di superare con successo questo ostacolo, e di raccogliere risposte da un numero di stati superiore rispetto a quello preventivato.
Un’altra sfida è quella metodologica. Riuscire a sviluppare strumenti che permettano di valutare e definire best practices non è un’opera semplice. La sfida risiede anche nel definire le modalità di valutazione dei sistemi rispetto a un fenomeno molto complesso e articolato come quello della corruzione. Su questo aspetto si concentrerà tutta la seconda parte del progetto».



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