Obesità, patologia o no? Per stabilirlo il Bmi non basta più, previsti 18 criteri diagnostici

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Roma, 17 gennaio – È giunta l’ora che l’indice di massa corporea (Bmi), uno dei criteri utilizzati in medicina per  la diagnosi di obesità,  non rappresenta in realtà una misura affidabile di salute o di malattia a livello individuale e può portare a diagnosi errate, con conseguenze negative per le persone che vivono con obesità.

Lo sostiene una commissione di esperti, presieduta dall’italiano Francesco Rubino, professore del King’s College di Londra, che – in una proposta pubblicata su The Lancet Diabetes & Endocrinology, con l’endorsement di oltre 75 associazioni mediche a livello mondiale – raccomanda un nuovo approccio diagnostico che, in aggiunta al Bmi, utilizzi anche  valutazioni e misure del grasso corporeo – ad esempio, circonferenza vita o misurazione diretta dell’adipe – per individuare l’obesità, riducendo il rischio di una classificazione errata.

La proposta si propone di affrontare i limiti della definizione e della diagnosi tradizionale di obesità che ostacolano la pratica clinica e le politiche sanitarie, facendo sì che le persone con obesità non ricevano i trattamenti di cui hanno bisogno. Fornendo una cornice medica coerente per la diagnosi di patologia, la Commissione si augura anche di ricomporre l’attuale disputa circa l’idea di obesità come malattia, che è stata al centro di uno dei dibattiti più controversi e polarizzanti della medicina moderna.

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“La questione del se l’obesità sia una malattia è fallace, perché presuppone uno scenario non plausibile del tipo ‘tutto-o-nulla’, nel quale l’obesità rappresenti sempre una malattia o mai” spiega Rubino. “Le evidenze scientifiche tuttavia raccontano una realtà molto più sfumata. Alcuni individui con obesità possono mantenere una normale funzione d’organo e un buono stato di salute globale, anche a lungo termine; mentre altri mostrano segni e sintomi di malattia grave qui e adesso”. Considerare l’obesità solo come un fattore di rischio e mai come una patologia, secondo Rubino, “può portare immeritatamente a negare l’accesso a terapie tempestive a soggetti in cattiva salute per motivi riconducibili alla sola obesità. D’altra parte, una definizione ampia di obesità come patologia può sfociare in un eccesso di diagnosi e nell’uso inappropriato di farmaci e procedure chirurgiche, con danno potenziale agli individui e costi impressionanti per la società”.

“La nostra riformulazione riconosce la realtà sfumata dell’obesità e permette un trattamento personalizzato” afferma ancora Rubino. “Questo comprende un accesso tempestivo ai trattamenti basati sull’evidenza per gli individui con obesità clinica, come si conviene per le persone affette da qualche forma di patologia cronica, come anche strategie di trattamento per la riduzione di rischio per le persone con obesità pre-clinica, che presentano un rischio aumentato, ma senza patologie concomitanti. Questo potrà facilitare una riallocazione razionale delle risorse sanitarie e una prioritizzazione giusta”.

Con la stima di oltre un miliardo di persone con obesità nel mondo, la proposta della Commissione fornisce un’opportunità ai servizi sanitari di adottare una definizione di obesità universale e clinicamente rilevante e una metodologia di diagnostica più accurata. “Riconoscere l’obesità come una malattia, in particolare l’obesità clinica, ossia quella accompagnata da segni e sintomi specifici” spiega Geltrude Mingrone (nella foto), professoressa associata di Medicina interna all’università Cattolica del Sacro Cuore e direttrice Uoc Patologie dell’Obesità del Policlinico Universitario A. Gemelli Irccs “consentirà di ridurre lo stigma associato a questa condizione tra il pubblico, i medici e i decisori politici. Questo è un passo fondamentale per definire i livelli essenziali di assistenza (Lea) e garantire un trattamento adeguato di questa patologia”.

Secondo gli esperti, gli attuali approcci per la diagnosi di obesità sono inefficaci. Parte del problema sta nel fatto che al momento l’obesità viene attualmente definita sulla base del Bmi: un Bmi superiore a 30 Kg/m2 è considerato un indicatore di obesità per i soggetti di discendenza europea. Vengono utilizzati anche diversi cut off, specifici per nazione, per rendere conto della variabilità etnica del rischio correlato all’obesità. Sebbene il Bmi sia utile per individuare soggetti ad aumentato rischio di patologie, la Commissione sottolinea il fatto che il Bmi non è una misura diretta del tessuto adiposo, non riflette la sua distribuzione corporea e non fornisce informazioni su salute o patologia a livello del singolo individuo.

“Basarsi solo sul Bmi per diagnosticare l’obesità può rappresentare un problema perché alcune persone tendono a immagazzinare grasso in eccesso a livello del punto vita e all’interno o intorno i loro organi, come il fegato, il cuore o i muscoli”  sottolinea il componente della Commissione, Robert Eckel, dell’Anschutz Medical Campus dell’Università del Colorado (Usa). “Questo si associa a un maggior rischio per la salute rispetto a quando il grasso in eccesso è localizzato solo sottocute, a livello delle braccia, delle gambe o in altre aree corporee. Ma le persone con un eccesso di tessuto adiposo non sempre presentano un Bmi che li faccia riconoscere come individui con obesità, e questo significa che i loro problemi di salute possono sfuggire. Inoltre alcune persone con elevato Bmi e alto contenuto di grasso corporeo possono mantenere una normale funzionalità degli organi e dell’organismo, senza segni o sintomi di patologie concomitanti”.

Pur riconoscendo l’utilità del Bmi come strumento di screening per individuare le persone potenzialmente con obesità, gli autori raccomandano di prendere le distanze dal diagnosticare l’obesità basandosi solo sul Bmi. Per contro, invitano a confermare la presenza di una massa adiposa in eccesso (obesità) e di studiare la sua distribuzione corporea usando uno dei metodi seguenti: almeno una misurazione corporea (circonferenza vita, rapporto vita-anche o vita-altezza) in aggiunta al Bmi; almeno due misurazioni corporee (circonferenza vita, rapporto vita-anche o vita-altezza), a prescindere dal Bmi; misurazione diretta del tessuto adiposo corporeo (attraverso la Dexa o scansione della densitometria ossea), a prescindere dal Bmi. Nelle persone con Bmi molto alto (es. superiore a 40 Kg/m2) si può presumere in modo empirico la presenza di un eccesso di grasso corporeo.

Due le nuove categorie di obesità, secondo gli autori della ricerca: ‘obesità clinica’ e ‘obesità pre-clinica’. L’obesità clinica viene definita come una condizione di obesità associata a segni e/o sintomi oggetti di ridotta funzione d’organo o con una capacità significativamente ridotta di svolgere le normali attività della vita quotidiana (farsi il bagno, vestirsi, mangiare e la continenza), riconducibile direttamente al grasso corporeo in eccesso. Le persone con obesità clinica andrebbero considerate come soggetti affetti da una patologia cronica e ricevere un’appropriata gestione e trattamenti.

La Commissione fissa 18 criteri diagnostici per l’obesità clinica negli adulti e 13 criteri specifici per bambini e adolescenti, comprendenti: dispnea (affanno) dovuta agli effetti dell’obesità sui polmoni; insufficienza cardiaca indotta dall’obesità; dolore al ginocchio o alle anche con rigidità articolare, e ridotto range di movimento come effetto diretto di un eccesso di grasso corporeo a livello delle articolazioni; alcune alterazioni delle ossa e articolazioni nei bambini e negli adolescenti in grado di limitare i movimenti; altri segni e sintomi causati da disfunzioni a livello di altri organi, compresi reni, vie respiratorie superiori, organi metabolici, sistema nervoso, urinario e riproduttivo e sistema linfatico degli arti inferiori.

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L’obesità pre-clinica è invece una condizione di obesità in presenza di una normale funzione degli organi. le persone che vivono con obesità pre-clinica quindi non hanno patologie concomitanti, sebbene abbiano un rischio variabile ma in generale aumentato di sviluppare obesità clinica e varie altre malattie non trasmissibili in futuro, compresi diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari, alcune forme di tumori e di patologie mentali, tra le altre. Come tali, dovrebbero essere supportate per ridurre il rischio di patologie potenziali.

Il tipo di trattamento e gestione dell’obesità clinica – stile di vita, farmaci, chirurgia, eccetera – dovrebbe essere scelto sulla base del rischio individuale, valutandone i benefici e individuandolo dopo un’attiva conversazione con il paziente. Le persone che vivono, invece, con obesità pre-clinica sono a rischio di malattie future ma non presentano al momento complicanze dovute all’eccesso di grasso corporeo. Di conseguenza, l’approccio alla loro presa in carico dovrebbe mirare ad una riduzione del rischio. A seconda del livello individuale di rischio, questo potrà richiedere il solo counselling e monitoraggio nel tempo o l’instaurazione di un trattamento attivo, se necessario per ridurre in maniera sostanziale l’elevato livello di rischio.



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