Le contraddizioni dell’autonomia differenziata e il grande equivoco sul federalismo

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È del 3 dicembre scorso la sentenza della Corte costituzionale che limita significativamente la portata e l’estensione della legge sull’autonomia differenziata approvata appena pochi mesi prima. Il progetto di autonomia differenziata ha preso il via nel 2017 con la richiesta avanzata da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna in conformità con quanto previsto dal Titolo V della Costituzione riscritto nel 2001 dalla sgangherata riforma costituzionale voluta dal centro sinistra. Alla richiesta delle regioni è seguita la legge sull’autonomia differenziata del giugno del 2024.

L’attuale deriva di particolarismo territoriale, se nell’immediatezza programmatica trae origine dalla riforma costituzionale del 2001, in realtà è l’esito di molti decenni di retorica sul “territorio”, incarnata in bolse parole d’ordine quali i bisogni del territorio, le potenzialità del territorio, il legame peculiare con il territorio, l’identità del territorio. Il “territorio”, insomma, come sacra scaturigine di ogni legittimità politica e di ogni virtù amministrativa, con la sinistra in prima fila quale fiero alfiere del territorio già dai tempi remoti del malaugurato Statuto della Regione Siciliana e fino a ieri.

La novità della fase attuale sta nel fatto che la rivendicazione dell’autonomia differenziata ha trovato il consenso strumentale e funzionale allo scambio politico con il premierato anche di una forza intrinsecamente e tenacemente nazionalista e centralista come Fratelli d’Italia.

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Al di là della terminologia adottata, la prospettiva che si delineava con il progetto originario – antecedente cioè all’intervento della Corte costituzionale – appare di fatto quella di un assetto di tipo federale, o che comunque guarda al federalismo come punto di tensione ideale. Il pensiero federalista in Italia ha una storia importante, risalente al Risorgimento, e ad esso diede forma Carlo Cattaneo, preceduto dal confederalismo di matrice neoguelfa. In realtà, Cattaneo è tanto menzionato e sbandierato quanto effettivamente poco letto. Cattaneo, pur ritenendo che gli antichi stati italiani in quanto tali, confluendo in una compagine statale federale, dovessero conservare i propri assetti legislativi, aveva in mente un sistema di autonomie locali articolato su unità territoriali di ben più ridotte dimensioni che non le attuali regioni italiane. Non a caso, egli è autore de “La città considerata come principio ideale delle istorie italiane”, testo storico, ma di alimento del suo pensiero politico, più esplicitamente illustrato in altri scritti.

La tesi di Cattaneo, elaborata sulla scorta di una storiografia preesistente e in buona parte condivisa anche dalla storiografia successiva, è che in Italia centri aggregatori di sviluppo e crescita economica, ma anche civile e culturale, siano le città, grandi e piccole. «I Comuni sono la Nazione», sostiene Cattaneo con un’affermazione ad effetto, ma che dietro la sintesi enfatica della formulazione ha solidità storiografica. In effetti, almeno per quanto riguarda il Nord e il Centro Nord del Paese, sia pure al netto di una certa mitografia di matrice romantica che ha esaltato le città è innegabile che queste nell’Età dei Comuni abbiano costituito in una misura significativa il motore, il fulcro, di una storia politica, sociale, economica e culturale di respiro europeo. Si pensi a realtà come Firenze, Pisa, Milano, Bologna, Verona, Ferrara, Siena, Mantova, Perugia, Rimini, Lucca, Asti, ma anche come Genova e Venezia.

Nel dibattito politico attuale, che perdura dai tempi della comparsa della Lega sul proscenio politico, invece il federalismo è incardinato esclusivamente sulle regioni, considerate come dato territoriale in qualche modo originario, quando invece esse, per lo più, sono il risultato di una ripartizione territoriale tarda, eterogenea e spesso artificiosa, con dei confini in molti casi privi di riscontro storico, linguistico-culturale e anche geografico.

Le regioni, infatti, traggono origine dalla suddivisione del territorio italiano in grandi compartimenti statistici consolidata allindomani dellUnità di Italia ad opera dei due statistici e uomini politici Cesare Correnti e Pietro Maestri, fondatori dell’Annuario statistico italiano, i quali adottarono dei criteri molto articolati, ma pur sempre subordinati alle esigenze dell’indagine statistica. Solo alcuni dei territori così individuati coincidevano con aree dalla riconoscibile fisionomia quali potevano essere gli stati italiani preunitari o antiche regioni storiche, e in ogni caso sempre in modo piuttosto approssimativo. Lo stesso termine regione subentra a quello di compartimento solo ai primi del Novecento. I Padri costituenti, nell’inserire le regioni nella Costituzione, si limitarono a richiamarsi senza approfondimenti ai compartimenti statistici individuati estrinsecamente otto decenni prima. Risalire all’origine della ripartizione regionale è quanto mai opportuno per far luce sul carattere non intrinseco dell’istituto regionale alla storia, alla tradizione e alla geografia storica del nostro Paese, che fanno invece riferimento, come si è visto sopra, in buona parte alla dimensione della municipalità, oltre che a quella della provincia.

Inoltre, occorre osservare che il regionalismo italiano è articolato nei termini di un vero e proprio centralismo regionale, il quale sembra dare decisamente poco spazio a quella dimensione prettamente locale individuata da Cattaneo quale cardine dellautogoverno e conseguentemente come condizione di sviluppo civile ed economico. La stessa soppressione di fatto nel 2014 delle province, istituto amministrativo e di ripartizione territoriale ben più antico e radicato della regione, ha accentuato il profilo centralistico della regione. Insomma, la regione, mimando il centralismo statale, è venuta configurandosi come simil-stato accentratore in sedicesimo.

Luso radicato a livello sia politico che giornalistico del termine inappropriato e anche un po’ ridicolo di governatore per indicare il presidente di regione è a sua volta esemplificativo della povertà culturale del dibattito politico sul tema.

Ma soprattutto è opportuno porre in evidenza un risvolto tanto importante quanto trascurato e senza tener conto del quale si distorce in modo decisivo la discussione. A sostegno dell’opzione federalista si menzionano, per rimanere in Europa, esempi come Svizzera, Germania o Austria, che sono paesi prosperi, efficienti, organizzati, dall’alta qualità di vita e di indubbia maturità civile. Gli apologeti del federalismo e più in generale del particolarismo territoriale ritengono di individuare nell’assetto istituzionale federale la radice della situazione socioeconomica avanzata di questi paesi. In realtà, si dovrebbe provare a cambiare la prospettiva e ipotizzare che la correlazione tra benessere complessivo e federalismo sia da leggere in senso contrario rispetto a quanto solitamente accade. Ovvero, occorre considerare seriamente l’ipotesi che non è che questi paesi siano ricchi ed efficienti perché sono federali, bensì che possa valere linverso: questi paesi possono permettersi di essere federali perché sono ricchi, efficienti, e maturi. 

In tale prospettiva il federalismo non è dunque causa del benessere e dello sviluppo, ma sono lo sviluppo e il benessere, cui è correlata la maturità storico-civile delle popolazioni, a rendere possibile una feconda esperienza politico-amministrativa federale, la quale a sua volta, proprio perché maturata in un contesto complessivo ad essa confacente, può sprigionare ulteriori effetti positivi determinando così un circolo virtuoso che coinvolge tutte le entità federali dello Stato. Là dove invece la situazione socioeconomica presenti delle criticità fondamentali, come è il caso del nostro Paese su più fronti, a cominciare dal divario sussistente tra Centro-Nord e Mezzogiorno, è importante che sussista un potere centrale forte e autorevole che abbia la possibilità di misurare e affrontare i problemi nella loro portata complessiva.

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In situazioni che presentano problemi annosi e complessi, i particolarismi territoriali sono di intralcio alle soluzioni. E a proposito di Mezzogiorno, non sarà fuori luogo ricordare che l’intervento attuato dalla Cassa per il Mezzogiorno, organismo rigorosamente centralizzato, pur con tutti i suoi limiti, difetti e difficoltà riuscì ad attenuare in misura significativa, ancorché non risolutiva, il divario Nord Sud. Quando, successivamente alla soppressione della Cassa del Mezzogiorno, molte delle competenze di questa sono passate in capo alle regioni, centri di spesa e di sperpero, il divario è nuovamente aumentato.

A sostegno della prospettiva confederalista e federalista, già Gioberti e Cattaneo ponevano, fra l’altro, le grandi differenze che sul piano economico, storico e culturale sussistevano tra le diverse aree della penisola, ciascuna delle quali nei secoli aveva maturato una specifica fisionomia, in linea di principio refrattaria allomogeneità legislativa e amministrativa collegabile allo stato centralista. E se è vero che a differenze storiche e culturali marcate sembra addirsi meglio un assetto federale, come lesemplare esperienza plurisecolare della Svizzera e quella più recente e non priva di difficoltà del Belgio paiono indicare, nondimeno quando le differenze, soprattutto quelle che si riscontrano sul piano economico complessivo, appaiono difficilmente colmabili, come è appunto il caso del nostro Paese, un sistema di autonomie regionali molto accentuato può solo cristallizzarle o addirittura in prospettiva estenderle. 

Peraltro, nulla vieta che lo stato centrale e persino accentratore possa anche governare diversamente i diversi territori. Accentramento in realtà non significa necessariamente omogeneità normativa e amministrativa. Lesempio della Cassa del Mezzogiorno è ancora una volta significativo al riguardo. Essa, istituto statale centralistico, sia pure con circoscritto riferimento al profilo economico, produttivo e finanziario, amministrava sulla base di una specifica normativa una parte del paese in modo diverso dal resto dell’Italia. Tale diversità rispondeva alla necessità di dare risposte appropriate ai bisogni specifici della realtà territoriale del Mezzogiorno d’Italia. Ciò che conta, non è chi dà le risposte che le particolarità dei territori richiedono, ma quali risposte si danno.

Naturalmente, si può e si deve ragionare di una diversa impostazione dei rapporti fra Stato centrale e autonomie locali, che, è bene ribadirlo, non dovrebbero essere identificate in via esclusiva con le regioni. Ma un dibattito approfondito deve passare per la decostruzione della mitologia di un federalismo o di un autonomismo regionale panacea di tutti i mali del Paese. In ogni caso, nell’attesa di cosa deciderà a breve la Corte costituzionale in merito all’ammissibilità del referendum abrogativo della legge sull’autonomia differenziata, e nell’auspicio di una decisione positiva, per il momento si può registrare con favore il limite posto dalla medesima Corte alle velleità di tipo federalistico o comunque ai particolarismi territoriali.



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