Mark Zuckerberg si accoda a Elon Musk? – IN THE NET

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Facebook e Instagram si sbarazzano dei fact-checker

di La Redazione di InTheNet

Il numero 1 di Meta, dopo aver ammesso di aver accettato ingerenze esterne censurando messaggi e bloccando profili di FB che esprimevano opinioni critiche verso i vaccini contro la Covid-19 o dubbi in merito alla narrazione ufficiale della pandemia, prende atto del nuovo corso che imprimerà il Presidente Trump, scegliendo di rimpiazzare i ben poco equilibrati fact-checker con cosiddette community notes – simili a quelle del rivale X

Per annunciare la nuova politica di – chiamiamola – libertà di opinione, che cancella la precedente, valutata come censoria dallo stesso Zuckerberg, il Ceo ha scelto di affidarsi a un videomessaggio, ammettendo le interferenze del mondo politico e cambiando velocemente casacca con la donazione, già a dicembre 2024, di un milione di dollari al fondo a supporto di Trump, dopo che altri tycoon miliardari avevano fatto lo stesso – tra i quali, Jeff Bezos di Amazon.

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Sebbene parte dei colleghi della stampa statunitense, come quelli di The Intercept, abbiano semplicemente etichettato la mossa di Zuckerberg come un genuflettersi al volere del nuovo padrone della Casa Bianca, assicurano altresì che le “piattaforme di Meta non seguiranno i passi di X, riempiendosi di teorie cospiratorie razziste e prive di fondamenta, di profili neo-nazisti, e discorsi violenti o di incitamento all’odio”.

Sempre secondo The Intercept i “liberali hanno trattato l’ascesa di Trump come un problema di disinformazione impazzita e che poteva essere risolto grazie al fact-checking”. E nonostante questo non corrisponda al vero (come ha dimostrato il voto negli States), sempre secondo la testata d’inchiesta, non si dovrebbe negare “il valore del fact-checking in ambito social, o più ampiamente, quando serve a combattere l’estrema destra o l’appeal della sua visione del mondo complottista”.

La pratica del fact-checking in FB, affidata a ben 90 organizzazioni in tutto il mondo, aveva preso il via nel 2016, a ridosso delle elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca per il primo mandato. Sebbene il sistema, secondo i colleghi, fosse inteso a combattere la “misinformazione virale”, ci sarebbe da chiedersi se la coincidenza di date non indichi ben altro, ossia la precisa volontà di una certa élite di potere politico ed economico di forgiare le opinioni e sponsorizzare le idee più consone a una visione del mondo che, dalla Seconda guerra mondiale, non solamente vede gli Stati Uniti detenere un potere egemone ma anche vantare l’arroganza di sapere ciò che è vero o falso, giusto o sbagliato a livello di narrazione mediatica (come denunciato in altri termini da Pasolini già negli anni 70 del Novecento).

In questi articoli si presta poca attenzione al fatto che il profilo di Trump sia stato escluso dalle piattaforme social per anni, eppure non sia diminuito il sostegno a quanto raccontava alla pancia degli statunitensi. Su questo occorrerebbe riflettere. Così come non si vuole ammettere che, sotto l’amministrazione Biden, gli Us abbiano stretto rapporti e sostenuto economicamente e militarmente il Battaglione Azov, dichiaratamente neonazista; il Governo genocida di Netanyahu (come denuncia Amnesty International); o, dopo averla affamata e depredata, la Siria del nuovo corso di HTS e del suo leader, sul quale pendeva una taglia di 10 milioni di dollari (per non parlare degli omicidi di presunti nemici effettuati sotto l’amministrazione Obama e denunciati attraverso i drone papers, 1). Sono certi i colleghi della stampa liberal che quanto rappresentano nel mondo – da decenni – gli Stati Uniti dei Democratici, sia diverso da ciò che rappresentano quando sono sotto la guida Repubblicana?

Se anche è poco credibile che Zuckerberg si trasformi in un paladino della libertà di parola, altrettanto vero è che i social dovrebbero essere intesi come mezzi di comunicazione tra persone e non come fonte di informazione presuntamente imparziale. E in uno Stato che si appella democratico dovrebbe essere inaccettabile che il padrone di un bar vieti un discorso tra amici, così come che un fact-checker (come Open, in Italia) sia assunto da FB per vagliare quanto scrivono, come privati cittadini, i suoi utenti (che consentono a Zuckerberg di arricchirsi), decidendo chi debba essere zittito. Vogliamo forse ricordare come, secondo i fact-checker, l’attentato al Nord Stream fosse solo un’ipotesi complottista? E sorvoliamo su quanto ha rivelato la Commissione d’Inchiesta statunitense in merito ai vaccini a mRNA e alla loro incapacità di immunizzare le persone e bloccare l’epidemia, o sulla possibile origine in un laboratorio cinese (finanziato dagli States) del Sars-Cov-2 – bollate entrambe, per anni, come teorie complottiste (2).

Concordiamo invece con quei colleghi che si preoccupano che Meta continuerà a bandire i post e i profili pro-palestinesi, come ha denunciato anche Human Rights Watch – definendo tale politica “sistematica e globale”. Mentre i contenuti che lo stesso Zuckerberg afferma di voler smettere di deindicizzare o bloccare riguarderebbero “l’immigrazione e l’identità di genere” – il che, se strizza l’occhio, secondo i colleghi, alla destra omofoba e razzista, d’altro canto potrebbe portarci ad affrontare nodi cruciali come il mancato riconoscimento a livello Onu del diritto di emigrazione per motivi economici; la realtà dei migranti illegali che, troppo spesso, si illudono – arrivando in Occidente – di trovare un lavoro regolare e una casa; o il tema degli interventi di cambio di genere su minore che, più che scelta liberal, pare una moda pericolosa che occulta ragioni psicologiche o culturali, quando non vere e proprie patologie, le quali potrebbero spiegare altrimenti tale bisogno soprattutto in un’età in cui – sia a livello ormonale e fisico sia psicologico – viviamo tutti fasi di difficoltà e turbamento.

Ci appare curioso che, in un altro articolo, si legga come non sia un buon segnale la perdita di finanziamenti per il mondo del giornalismo e le organizzazioni di ricerca che operavano per Meta quali fact-checker. Ora, che un giornalista debba prestarsi a censurare un collega è già di per sé discutibile, ma che lo faccia sugli scambi tra privati cittadini su un social assomiglia sempre più a una subdola forma di controllo da Grande Fratello. Il giornalismo è in crisi perché, invece di concentrarsi sulle inchieste e i temi scomodi, denunciando il potere reale e le lobby nascoste che agiscono nell’ombra, fa il watchdog che azzanna le persone comuni, trattandole da disinformate, tacciandole di terrapiattismo, accusandole di pensare e votare con la pancia invece che con la testa, dividendo e creando rumore di sottofondo, eccetera. Nessuno si domanda per quale ragione uno statunitense liberal avrebbe dovuto positivamente appoggiare una Kamala Harris – nemmeno scelta attraverso le primarie ma direttamente dall’establishment? Una ex vice presidente incapace di risolvere il problema delle migrazioni (sia liberalizzandole sia stringendo le maglie: non è questo lo spazio per approfondire la tematica), prona a una belligeranza attiva pro-Israele, a continuare l’embargo contro Cuba e a una guerra a oltranza in Donbass; ma anche non particolarmente originale in fatto di welfare, diritti degli afroamericani e dei reclusi (quando Procuratore della California) o di redistribuzione della ricchezza. Quali tra questi temi avrebbe affrontato Harris in una visione più democratica del mondo e dei rapporti di forza che lo governano?

E chiudiamo con alcuni dati recentemente pubblicati da Chris Hedges che ci danno ragione sulla prassi ben poco pacifista e democratica dell’amministrazione Biden.
Dall’ottobre 2023 allo stesso mese del 2024 gli Stati Uniti hanno fornito 17,9 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele – una autentica impennata rispetto ai 3,8 miliardi di dollari elargiti ogni anno. Inoltre, mentre Biden era ancora in carica, sebbene per pochi giorni, il Dipartimento di Stato ha informato il Congresso della sua intenzione di approvare altri 8 miliardi di dollari per l’acquisto di armi di fabbricazione statunitense da parte di Israele – ivi comprese 2.800 bombe MK-84 non guidate, che (come scrive Hedges): “Israele ha l’abitudine di sganciare su accampamenti di tende densamente popolati a Gaza. L’onda di pressione delle bombe MK-84 da 2.000 libbre polverizza gli edifici e stermina la vita nel raggio di 400 metri”. E continua (nello stesso articolo, tradotto e pubblicato da L’Antidiplomatico): “Il genocidio, e la decisione di alimentarlo con miliardi di dollari, segna una svolta inquietante. È una dichiarazione pubblica da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati in Europa che il diritto internazionale e umanitario, sebbene palesemente ignorato dagli Stati Uniti in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria e, una generazione prima, in Vietnam, è privo di significato. Non lo rispetteremo nemmeno a parole. Questo sarà un mondo hobbesiano in cui le nazioni che possiedono le armi industriali più avanzate dettano le regole. Coloro che sono poveri e vulnerabili si inginocchieranno per essere sottomessi”.

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Ecco, di questi temi e a queste denunce dovrebbero dedicare il loro lavoro i giornalisti (quelli veri, come i 200 colleghi uccisi da Israele), attraendo così nuovi lettori, ormai stanchi della solita campagna divisiva pro o contro qualcosa (dalla fluidità di genere alle vittime di scippatori migranti). Invece di piagnucolare per la perdita di fondi destinati da Meta alla censura dei discorsi da bar sui social, è ora che si torni a fare il proprio mestiere – liberi da condizionamenti e partigianerie.

Noi di InTheNet abbiamo nel frattempo riaperto lo spazio su FB a nome del Direttore, Simona Frigerio, per pubblicizzare i link agli articoli – così testeremo se Zuckerberg affermi o meno la verità, lasciandoci finalmente in pace di pubblicare ciò che riteniamo interessante per i lettori.

(1) https://www.inthenet.eu/tag/daniel-hale/

(2) https://www.inthenet.eu/2024/12/20/gli-us-pubblicano-520-pagine-critiche-rispetto-alla-gestione-della-pandemia/

venerdì, 17 gennaio 2025

In copertina: Immagine generata dall’IA

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