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Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, ma non di fronte all’amministrazione della giustizia. Non si spiega altrimenti che un cittadino come Beniamino Zuncheddu, ingiustamente condannato e proclamato innocente dopo 32 anni di carcere, per provare ad accelerare – per sé e per quel migliaio di persone che come lui ogni anno sono “vittime della giustizia” – promuova una legge di iniziativa popolare per avere un indennizzo da parte dello Stato.

Errori giudiziari, un indennizzo subito

Si dirà che la legge c’è già. Vero. Peccato che i tempi e i modi per erogare l’indennizzo per le vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione non siano adeguati a un paese civile. Se sbagliare è umano – anche da parte di uno o più giudici – perseverare è diabolico. E liquidare l’indennizzo a chi ha avuto la vita distrutta da indagini sbagliate o da sentenze errate può richiedere anni. Molti anni. Non solo: la stessa erogazione dell’indennizzo è sottoposta a regole e a quantificazioni che sono semplicemente scandalose. E allora si comprende la ragione per cui c’è chi ha promosso questa legge di iniziativa popolare – presentata in Cassazione e in cerca di almeno 50mila firme – perché nell’attesa della liquidazione del “dovuto” venga riconosciuto subito un assegno mensile a chi ha avuto la vita personale e professionale distrutta, e di fatto privata anche delle più essenziali forme di sussistenza sociale ed economica.

La stessa iniziativa popolare per una legge “tappabuchi” è la conferma di un’indecente asimmetria tra Stato e cittadini. Dovrebbe essere dovere dell’istituzione provvedere a un percorso amministrativo efficiente, efficace e rapido. Ma, visto che per esperienza lo Stato non provvede, i cittadini cercano di difendersi in qualche modo. E dovrebbe essere compito del legislatore “ordinario” impegnarsi per correggere le tante evidenti inadeguatezze della normativa italiana vigente, che ancora non recepisce integralmente il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione così come sancito dalla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo (CEDU) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici.

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Errori giudiziari e ingiusta detenzione

L’errore giudiziario tecnicamente si consuma solo con una sentenza definitiva. Tanto che c’è chi recentemente ha avuto l’ardire di dire che il “caso Tortora” non sia stato un errore giudiziario perché, dopo 3 anni di detenzione e una sentenza di primo grado, Enzo Tortora è stato giudicato innocente in appello. Peccato che nel caso suo – e in quello di molti altri che hanno subìto detenzioni preventive ingiuste – si parla non di errore giudiziario, ma di “ingiusta detenzione”: la vita viene comunque distrutta, la reputazione infangata, la capacità di lavoro compromessa, con danni economici quantificabili ma raramente “riconosciuti”.

Il risarcimento per ingiusta detenzione è una forma di compensazione economica ammessa per chi è stato sottoposto ingiustamente a custodia cautelare, sia in carcere sia agli arresti domiciliari, o a chi ha subìto una condanna poi risultata errata. Questa misura è regolamentata dalla legge n. 447 del 1988, che prevede la possibilità per la vittima di richiedere un indennizzo dopo l’emissione di una sentenza di proscioglimento, dimostrando così l’ingiustizia della detenzione subita.

Dai 117 euro al giorno agli 800 per il pm…

Il processo – un altro processo, sottoposto a una nuova discrezionalità di un altro giudice – per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione richiede che la vittima presenti domanda alla Corte d’Appello competente. Ciò deve avvenire entro 2 anni dalla sentenza di proscioglimento definitiva. E l’importo del risarcimento viene calcolato su un criterio aritmetico che prevede per ogni giorno di detenzione ingiusta circa 117 euro. Ma non è così per tutti. È capitato che per un magistrato ingiustamente detenuto siano stati riconosciuti – a tempo di record – 800 euro di risarcimento per ogni giorno di libertà perduta.

Dal 2018 al 2023 lo Stato ha risarcito 4.368 persone ingiustamente arrestate, per un totale di 193 milioni di euro: 44mila euro in media di risarcimento (per chi ci arriva). Una somma congrua per chi ha sofferto la privazione della libertà, un pregiudizio quasi insanabile della propria reputazione, un danno economico diretto e indiretto per la mancata attività di lavoro nei giorni della ingiusta detenzione e in quelli successivi, vista la compromessa reputazione e lo stigma sociale conseguente? E le responsabilità interne al sistema giudiziario restano per lo più impunite: su 87 azioni disciplinari avviate tra il 2017 e il 2023, si sono concluse con 44 archiviazioni, 27 assoluzioni, 8 censure e solo 1 ammonimento. In pratica, sanzioni disciplinari sono state applicate ai giudici che hanno sbagliato solo nello 0,2% dei casi.

Non basta. C’è dell’altro in questo percorso asimmetrico, capzioso e fondamentalmente partigiano per chi accusa: per ottenere il risarcimento, la vittima non deve aver contribuito all’errore giudiziario con dolo o colpa grave, una condizione che ha portato a interpretazioni giurisprudenziali controverse. Fino alla non ammissione del risarcimento per chi si sia avvalso della facoltà di non rispondere al Gip per la fase preliminare di convalida dell’arresto. Si badi bene che si tratta di una facoltà prevista e ammessa a garanzia dell’imputato, cui si fa ricorso spesso per un’oggettiva impossibilità di rispondere, avendo ricevuto magari ordinanze con migliaia di fogli la cui lettura richiede molto più delle 48 ore previste.

Ben venga il coraggio di Zuncheddu e degli altri promotori della legge. Ma forse molti – al vertice di molte istituzioni del paese e di molti esercizi di rappresentanza – dovrebbero arrossire, almeno, per l’indifferenza in cui si consuma questa indegna dimostrazione di vita dello Stato italiano.

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